Resistere (non) è possibile

di Lorenza Boninu

In fuga dalla scuola: i tormenti di chi ha scelto, come atto politico, di sottrarsi ad una «missione impossibile» (se vissuta come mera resistenza individuale).
 
Questo pezzo è, almeno in parte, la cronaca di un mio trauma: il fatto che non sia stato un accidente casuale o subito per volontà altrui, ma uno strappo consapevolmente meditato, non lo rende meno difficile da elaborare. Quando, per più di quarant’anni, si costruisce la propria identità a partire da un’idea forte (per quanto, con gli occhi di oggi, emotiva e romantica) di vocazione, è operazione complessa e a tratti dolorosa rileggere la propria vita a partire dall’ultimo atto, ovvero una decisione che molti potrebbero interpretare come una resa o, peggio, una fuga.
Ho sempre predicato contro la retorica dell’insegnamento come missione, privilegio e mestiere più bello del mondo perché, a mio modo di vedere, l’insegnante dovrebbe essere considerato non un apostolo, ma un professionista competente e adeguatamente riconosciuto e remunerato per la delicatezza del suo compito: tuttavia, mi rendo conto che, nel ricordare che cosa mi abbia spinto a scegliere questa strada, non riesco del tutto a sottrarmi ad un’idea quasi religiosa (beninteso, la religione laica delle humanae litterae) di illuminazione e chiamata.

So bene che si tratta di un‘illusione e ho imparato dai miei studi di sociologia che le nostre decisioni solo in minima parte sono così libere e disinteressate come crediamo, ma sono di fatto plasmate dall’ inconscio sociale e culturale che ha tracciato la nostra strada ben prima che ne potessimo avere consapevolezza. Eppure, è necessario al nostro equilibrio che quel che facciamo abbia un senso, nella duplice accezione di significato e direzione: per me, entrare in classe e costruire relazioni con gli studenti a partire dall’esperienza culturale e storica dei testi che affrontavamo insieme era un puntello esistenziale sufficiente a farmi sentire appagata. Soprattutto, era una quotidiana battaglia politica, nel senso più alto del termine, che mi pareva valesse la pena di essere combattuta in quel luogo (l’aula) e con quegli strumenti (gli specifici linguaggi e le ermeneutiche della letteratura, della storia, della filosofia). Eppure, ho scelto di andarmene.

Solo qualche giorno fa, durante un convegno promosso da Snals - Confsal a proposito di innovazione tecnologica a scuola, la presidente di Indire (Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa, l’organo preposto alla documentazione educativa e di fatto alla formazione in servizio del personale scolastico) Cristina Guerra ha affermato, a proposito del rapporto fra scuola e le nuove sfide connesse all’Intelligenza Artificiale: «Il docente non sarà sostituito [dall’intelligenza artificiale e dall’innovazione tecnologica nel suo complesso], ma cambierà ruolo, da guardiano della conoscenza a coreografo dell’apprendimento».
Questa definizione del ruolo del docente (apparentemente una citazione introdotta da un vago «qualcuno ha detto»), così suggestiva nel suo sottinteso metaforico, è solo l’ultima di una lunga serie di formule che tendono a demonizzare e sminuire la parola «conoscenza» a favore di una certa idea di apprendimento privo di oggetto, il cui senso può essere sintetizzato nella formula, affascinante quanto vaga, «imparare ad imparare».

Il fatto è che «conoscenza», nella nuova visione definita dalla cosiddetta «didattica per competenze» (di fatto il paradigma imposto dalle scelte ministeriali sia di destra che di sinistra, in termini di regolamenti, indicazioni, certificazioni, valutazione degli apprendimenti etc.) è interpretata come sinonimo di «nozionismo», ovvero apprendimento passivo, astratto, acritico, non operativo, non spendibile nella pratica, destinato a rapida obsolescenza, di fatto inefficace. Da questa idea deriva il ritratto grottesco del docente del passato come occhiuto guardiano di un sapere cristallizzato, sacralizzato, mnemonico, statico e dogmatico, reso tanto più inutilizzabile dal progredire delle nuove tecnologie. La didattica per competenze implicherebbe al contrario un approccio attivo, laboratoriale, con il docente che riveste, appunto, il ruolo di «facilitatore». Importa poco che il pensiero astratto perda valore rispetto ad un saper fare vuoto di contenuto ma utile nel plasmare una forza lavoro precaria, flessibile, intrappolata fra i due poli dello sfruttamento e del consumo, mentre i saperi disciplinari tradizionalmente trasmessi a scuola finiscono per essere residuali: infatti, il tempo dedicato alle discipline è costantemente eroso da una progettualità ipertrofica e disorganica (la scuola come «progettificio»), nonché dalle varie educazioni (a cominciare dalla vaghezza e inefficacia dell’educazione civica).
Il docente «facilitatore» (o, se più piace, «coreografo dell‘apprendimento»), strangolato fra l’altro dalla moltiplicazione delle incombenze burocratiche che non hanno nulla a che fare con l’autentico lavoro in classe, ha veramente poco spazio per aggiornarsi, studiare ed eventualmente sperimentare approcci didattici diversi (si badi bene, non necessariamente tradizionali e «vecchio stampo»!) rispetto a quello che di fatto è una didattica di Stato molto più invasiva degli antichi «programmi ministeriali».
 
Lo ammetto: avendo un’alternativa, ho scelto di rinunciare al combattimento. Ho definito il mio pensionamento «obiezione di coscienza», visto che i margini di resistenza mi parevano sempre più esigui. Credevo che il sistema potesse essere ostacolato dall’interno, mi sono resa conto che, al contrario, era il sistema che stava inesorabilmente cambiando il mio modo di essere docente: restare mi è sembrato, a un certo punto, una forma di complicità.
Ma la questione è ben più grave del semplice disagio personale di qualcuno che, come me, ha scelto il «gran rifiuto» con la speranza che non si trattasse, appunto, di una forma di ignavia. In realtà, non sono pochi i colleghi, giovani e non, che non si riconoscono nel paradigma educativo neoliberale nel quale si radicano i fenomeni sommariamente sintetizzati nei paragrafi precedenti: insegnanti che vorrebbero ancora credere in una loro funzione «intellettuale», che non accettano la rappresentazione caricaturale della conoscenza come inutile fardello di nozioni, che ancora studiano e sperimentano, che credono nel potere emancipatore del sapere, che non sono le severe sentinelle di un passato per niente rimpianto, ma vorrebbero essere, in qualche modo, esempi di pensiero autenticamente critico. Il problema è che queste energie, queste possibilità di resistenza, sono sempre più disperse, frammentarie, incapaci di fare rete, prive di credibili referenti politici. Persino le occasioni di dibattito e di confronto democratico all’interno delle comunità scolastiche (il collegio dei docenti, i consigli di classe, il consiglio di istituto) sono ormai svuotate di senso e ridotte a meri atti certificatori di decisioni prese altrove, come è inevitabile che accada in una scuola obbediente a logiche aziendalistiche.
 
Dunque, si va avanti, in qualche modo, mentre la scuola, da argine imperfetto verso la deriva tecnocratica che caratterizza la nostra società, inesorabilmente si trasforma in un dispositivo organico alla governamentalità neoliberale e in uno strumento di disciplinamento delle coscienze non solo degli studenti, ma anche degli stessi docenti, la cui formazione, in entrata e in servizio, è ispirata a poche parole d’ordine: didattica laboratoriale, competenze, innovazione tecnologica, transizione digitale…
Il problema, tuttavia, non è tanto la natura degli strumenti didattici utilizzati (nessuno, per esempio, vuole negare la necessità di educare criticamente i ragazzi e le ragazze alla complessità dei nuovi scenari comunicativi plasmati dall’intelligenza artificiale e dalla manipolazione algoritmica dei dati) , quanto la mancanza di accordo sulle conoscenze davvero significative, visto che i contenuti dell’apprendimento sono diventati sostanzialmente indifferenti, e quel che conta non è tanto ciò che si impara, quanto il conseguimento delle skills (soft e hard) indispensabili per funzionare come acquiescenti ingranaggi della macchina produttiva.
E a questo punto bisogna ammettere che pretendere da parte del mondo della scuola di resistere a questa deriva è quantomeno irrealistico, se analoga resistenza, culturale e politica, non si costruisce nella società nel suo complesso. La scuola non è altro che il riflesso e il prodotto di un mondo sociale sempre meno equo, via via tentato da derive autoritarie, orientato al profitto e allo sfruttamento, incapace di venire a capo delle proprie contraddizioni, frammentato, individualista, competitivo, allo stesso tempo miope verso il futuro e smemorato rispetto alla propria storia antica e recente. Non è una situazione definitiva o irreversibile, ma costruire un’alternativa credibile non sarà di certo un compito breve o semplice.