Istruiti e contenti
L’istruzione può essere propedeutica alla cultura, se viene utilizzata come base di una vocazione individuale. La scuola ha il compito importantissimo di darci un’infarinatura dei vari campi dello scibile umano, da sfruttare come punto di partenza per approfondire quello che ci interessa di più, verso cui proviamo una passione irresistibile e una forte inclinazione. Allora ci divertiremo a scoprire che la matematica non si limita alla sfilza di espressioni algebriche dei compiti per casa, che l’inglese non si esaurisce negli esercizi penosi che ci chiedono di volgere al plurale o al passivo frasi balorde come “-Susan, where is John? -John is in the house” e che Machiavelli, Caravaggio o Spinoza contengono un’articolazione e una profondità di linguaggio e di pensiero che vanno ben oltre gli stereotipi dei manuali, a volte fino a ribaltare le frettolose semplificazioni scolastiche.
Ma se l’istruzione diventa l’unico orizzonte del sapere, finisce col sostituire la cultura con un vacuo surrogato, una sua contraffazione buona tutt’al più per risolvere i cruciverba della Settimana Enigmistica. Così il luogo comune prende il posto della saggezza, si spaccia il sentito dire per studio e il mondo si riempie di idee ricevute, approssimative o sbagliate.
La cultura nasce da una fertile contaminazione tra la nostra personalità e l’applicazione critica e appassionata alla materia che ci ha scelto, non che abbiamo scelto noi. Solo così impareremo qualcosa.
Se ci fermiamo alla banale superficialità dell’istruzione scolastica, l’ignoranza colta farà più danni della grandine.
Lo capì bene Ennio Flaiano quando diceva “Tutto quello che non so, l’ho imparato a scuola”.