C'è un grande prato verde
...dalla finestra
forse butta una spera, il sole,
tra le dita dei bambini
e quelle difficili parole
Ugo Betti
“Mamma, corri, c'è una gallina viva!”
Alle pendici di un'altura dell'Appennino marchigiano, in un piccolo paese in cui sull'unica via insistono le case devastate dagli eventi sismici dell'ottobre 2016, un bambino di sei anni venuto dalla città scopre lo stupore di fronte all'inedito e all'inatteso.
Fino a quel momento, ai suoi occhi, la gallina ha unicamente le sembianze tristi della nudità di un corpo mutilato esposto sul bancone del macellaio, al supermercato. Se avesse una età maggiore, forse avrebbe incrociato le parole di Albert Camus quando afferma che, prima di diventarne spettatore e turista, quel paesaggio egli lo ha toccato, assaporato, respirato, si è ubriacato senza limiti dei suoi aromi, ha vissuto sotto il sole in uno splendore regale. A quelle parole, nella bambina di un tempo lontano tornano a bruciare le lacrime copiose e inutili per non essere riuscita a sottrarre la gallina dalle piume marroni con riflessi rossastri al destino di finire in una pentola per il brodo del pranzo di Natale.
A breve distanza dal pollaio c'è una piccola scuola di campagna, un edificio nuovo tinteggiato di giallo, con le grandi finestre a dare luce all'unica aula per i venti alunni della pluriclasse; all'esterno un grande prato per le lunghe ricreazioni difficili da separare dalle lezioni e il bosco di castagni a scandire il fluire delle stagioni, in un laboratorio a cielo aperto da esplorare alla ricerca di tracce concrete che sappiano travalicare quanto letto nel sussidiario o ascoltato dalla voce del maestro.
Una ricerca senza ostacoli di foglie secche, di policromie, di lombrichi che strisciano rapidi per incunearsi nel terreno ancora umido di pioggia, di scoiattoli che dall'alto del ramo su cui si sono rifugiati scrutano incuriositi quei volti con il naso all'insù, all'apparenza innocui.
In lontananza lo stridio di uccelli diversi a seconda del tempo e delle stagioni perché non ci sono solo i giorni della merla.
Poi, nell'aula, mille domande, tanta curiosità da soddisfare, immagini in cui riconoscere il già visto, parole nuove da imparare. Il maestro saprà trasformare quell'esperienza in conoscenza, in passione di capire e ricordare.
Nella scuola spalancata sulla bellezza del mondo, le parole vengono dopo e non sono gusci vuoti; sono cariche del significato incarnato nell'esperienza compiuta. Significanti che non saranno solo la bella veste dei significati, ma la musica che li farà volteggiare ad incontrare altre melodie, altre vesti, altri colori.
Prima ancora che nati per leggere nati per muoversi, per rispondere al bisogno primordiale di venire alla luce, di vedere, di toccare, di cercare nei sentieri accidentati del bosco le tracce remote della propria strada nel mondo. Bambini liberi di giocare e di sporcarsi, figli di madri pazienti che non li priverebbero mai della gioia di sedersi sul tappeto, accanto ai compagni di scuola, ad ascoltare la storia di fate, rospi e principi azzurri raccontata dalla maestra, perché la gonna è troppo costosa per essere sgualcita o peggio imbrattata.
Così il “contagio” col parallelo mondo digitale potrà essere ritardato fino a quando non sarà attivo un “vaccino” costruito con la capacità acquisita di distinguere il vero dal falso, il concreto dall'astratto, il bene dal male, la gioia dalla tristezza, la rabbia dal desiderio di ricomporre la frattura perché un amico in carne e ossa vale più di mille amici virtuali.
Forse per tutto questo i bambini che frequentano le scuole nel bosco sono, secondo studi recenti, più felici, meno competitivi, si ammalano di meno. Non hanno bisogno di assumere ansiolitici per contenere l'ansia da prestazione e non soffrono di solitudine. Sanno cogliere l'armonia delle voci che provengono dalla natura e non temono il silenzio.
La scuola istruisce ed educa nel contatto con una quotidianità semplice ed intensa, umile e solenne. E forse quei bambini, ormai adulti, vedranno ancora negli animali, nelle persone, in ogni essere vivente, il volto di una gallina, assurta a strumento di educazione sentimentale ed emblema della sacralità della vita da difendere e rispettare.
Più lieta della capra triestina dal volto semita di Umberto Saba.
La piccola scuola di campagna non vive solo nella filastrocca di Gianni Rodari; in realtà le piccole scuole risultano marginali solo in uno stantio immaginario collettivo perché gli alunni che le frequentano ammontano a circa un quarto della popolazione scolastica italiana, con migliaia di plessi di scuola primaria e secondaria di primo grado e decine di migliaia di alunni iscritti in una pluriclasse. La lontananza dai centri urbani ha fatto ritenere per troppo tempo che tali scuole potessero offrire soltanto un servizio educativo di qualità mediocre e non costituire al contrario un presidio, il collante sociale e comunitario intorno al quale ruota la vita della comunità. “Come posso pensare di far sopravvivere il mio piccolo comune se portano via la scuola” ha scritto di recente al Presidente della Repubblica la sindaca di un piccolo comune marchigiano. È arrivato il momento che le decisioni vengano prese da chi conosce davvero i territori e non da parte di chi, dietro una scrivania, guarda solo numeri che non sanno parlare.
A suffragio delle considerazioni fatte, si può citare, ad esempio, Comunità di memoria comunità di futuro. Il valore delle piccole scuole pubblicato da Carocci: è il risultato di un lungo percorso di ricerca promosso nel 2017 dall'Istituto Nazionale di Documentazione Innovazione Ricerca educativa (INDIRE) realizzato con la partecipazione delle piccole scuole. Nell'introduzione, Giovanni Biondi già presidente dell'Istituto, ribadisce che quando si chiude una scuola si spegne parte della vita di un paese perché la scuola è l'elemento più aggregante dell'intera comunità. E tanti bambini perderanno l'opportunità di assaporare, annusare, respirare, toccare il mondo in cui vivere anche in tempo di pandemia.
Come scrive Adriano Olivetti in Il cammino della Comunità (Edizioni di Comunità):
Tecnica e cultura conducono verso piccole città dalla vita intensa, dove ci sia armonia, pace, verde, silenzio, lontano dallo stato attuale delle metropoli sovraffollate e dall’isolamento e dallo sgomento dell’uomo solo. La natura, il paesaggio, i monti, i laghi, il mare creano con i nostri fratelli i limiti della nostra Comunità. Lì ci sentiamo più vicini al luogo migliore della nostra anima, più vicini al mondo dello spirito, al silenzio dell’eterno.
E ancora:
Abbiamo portato in tutti i villaggi le nostre armi segrete: i libri, i corsi, le opere dell’ingegno e dell’arte. Noi crediamo nella virtù rivoluzionaria della cultura che dona all’uomo il suo vero potere.