Produzione di cibo e cambiamento climatico
di Francesco Sottile
Dopo molti anni in cui ci si è sforzati di scrivere e parlare affinché anche i più scettici potessero essere consapevoli della crisi climatica in atto, adesso l’obiettivo è sostanzialmente mutato. Non è più importante che credano nel collasso del clima ma che lo comprendano realmente imparando a leggere la documentazione scientifica prodotta con sempre più provata consapevolezza. Quegli scienziati che riconoscono che il sistema sta raggiungendo il punto di non ritorno validando modelli che già dalla seconda metà del secolo scorso lanciavano segnali allarmanti. L’inquinamento, visto come l’effetto dell’emissione di gas serra (o climalteranti) in atmosfera, ha risposto in modo proporzionale alla sempre più spinta industrializzazione che ha garantito uno stile di vita sempre più agevole nascondendo il prezzo pagato dall’ecosistema.
Oggi la consapevolezza è molto maggiore, il dialogo è ancora più spinto ma le scelte politiche che ne conseguono non fanno il pari con il danno causato. E in questa consapevolezza ci sta anche sapere che un quarto di quei gas serra che inquinano l’atmosfera dipendono sostanzialmente dall’agricoltura, ovvero da quel sistema produttivo che dovrebbe essere destinato a soddisfare l’esigenza primaria degli esseri umani: la produzione del cibo.
Una relazione così netta tra produzione di cibo e crisi climatica lascia ancora oggi sgomenti, per più di una ragione soprattutto se ci si chiede quale sia il modello agricolo responsabile di tanta negatività per l’ecosistema.
Il processo di industrializzazione dell’agricoltura, incluso l’allevamento, ha stravolto un processo consolidato in millenni di storia delle civiltà del pianeta. A partire dal secondo dopoguerra, infatti, è maturato il convincimento che l’agricoltura fosse un sistema produttivo da dominare attraverso l’innovazione tecnologica che, sempre più sostenuta dalla ricerca industriale, avrebbe permesso di non curarsi dell’equilibrio naturale e degli effetti sull’ecosistema. Lo sviluppo dei semi delle varietà ibride, che avrebbero dovuto sfamare le popolazioni più in difficoltà, ha sottratto ai contadini la sovranità sulle loro varietà tradizionali, certamente meno produttive ma anche meno esigenti in termini di nutrienti del suolo e di acqua, così come capaci di maggiore resistenza ai parassiti e alle avversità locali. A questo si aggiunga il progressivo ricorso alla chimica di sintesi (erbicidi e pesticidi, oltre a concimi minerali) finalizzato ad uno sfruttamento agricolo attraverso le monocolture e la mortificazione della biodiversità. Anche il miglioramento delle razze animali per la massimizzazione della produzione di latte o di carne ha determinato un progressivo innalzamento dell’esigenza di alimenti funzionali prodotti con sistemi intensivi noncuranti della salute dell’ecosistema. Chi paga tutto questo? Il suolo, certamente, così come l’acqua e tutta la biodiversità, quella visibile e quella invisibile, quella naturale e quella agraria. Tutta la biodiversità indistintamente.
Il prezzo di questo modo di produrre è la perdita di fertilità dei suoli, facilmente avviati ad una desertificazione che mette in serio rischio la possibilità di continuare a produrre cibo. La sempre più spinta meccanizzazione agraria, così come il minore ricorso al pascolo con perdita di superfici a prato permanente, fanno si che il suolo non sia più un efficiente serbatoio di carbonio, che viene invece liberato in atmosfera contribuendo al cambiamento climatico. Come non accorgersi, quindi, dell’inestricabile legame tra sistema agricolo per la produzione del cibo e crisi climatica? E come non comprendere che l’agricoltura riesce ad essere carnefice e vittima della crisi climatica? Ne è buona parte della causa e finisce, nello stesso tempo, per essere il settore che più ne patisce. Ma se è carnefice come modello industriale non sostenibile, la parte della vittima è giocata dal modello virtuoso, da tutta quella agricoltura che guarda ancora alla produzione del cibo come strumento di reddito di sistemi familiari, di piccola scala, che rappresenta ancora oggi la spina dorsale del sistema globale del cibo. Questa consapevolezza deve incidere dal punto di vista politico, sforzandosi di influenzare adeguatamente la reale esigenza di conservare le risorse naturali non rinnovabili per poter garantire la produzione per le future generazioni. Si chiama agroecologia, un modello antico e moderno di innovazione ecologica che guarda alle risorse naturali nel rispetto dei principi ecologici, per una produzione rispettosa di tutto l’ecosistema. E si tratta di principi che si fondano sul valore della diversità biologica, culturale, sociale. Rispettosi di quella relazione netta ed inequivocabile tra biodiversità quale strumento di mitigazione e adattamento del cambiamento climatico, una relazione che viene insieme dagli scienziati dell’Ipbes, che studia la biodiversità, e dell’Ipcc, che studia i cambiamenti climatici, insieme tra loro perché la forza viene sempre dalla condivisione della conoscenza.