Esperienze alimentari nell’infanzia, fra il locale e il globale

di Giusi D'Urso

Un nuovo fenomeno si sta diffondendo con rapidità fra i bambini in età scolare, preoccupando le famiglie e producendo molti sprechi nelle mense scolastiche. Si tratta del comportamento alimentare selettivo che, soprattutto dopo la recente pandemia, si manifesta in alcuni bambini dai quattro agli undici anni circa, con il progressivo rifiuto nei confronti di categorie alimentari sempre più numerose. Il fenomeno ricalca, in modo più rigido e grave, la neofobia fisiologica, cioè la paura dei nuovi assaggi che tutti i bambini sperimentano durante il divezzamento, nel passaggio da un’alimentazione totalmente lattea a una semisolida, solida e varia. Quando la neofobia fisiologica non si risolve nei primissimi anni di vita può cronicizzare e diventare un ostacolo alla copertura dei fabbisogni nutrizionali, rendere difficile il momento della condivisione del pasto, condizionare la socialità in famiglia, a scuola e in altri luoghi di aggregazione.
Nella mia esperienza professionale, i bambini con una selettività pervicace presentano fattori comportamentali comuni sui quali a mio avviso è necessario fare una riflessione. Il più frequente è la mancanza di esperienze sensoriali. Il comportamento alimentare, con i suoi gusti e i suoi disgusti, è un fenomeno complesso e multifattoriale, fortemente influenzato, oltre che dalla genetica, dalle esperienze sensoriali intrauterine e post-natali. I bambini selettivi hanno un lessico alimentare impoverito, conoscono pochi cibi, non amano manipolare gli alimenti, li scelgono bianchi con consistenze e sapori costanti, e non amano sperimentare. L’assaporamento di alimenti nuovi è per questi bimbi fonte di timore e ansia, produce rifiuti anche drammatici, rinforzando e amplificando il problema.

Da questo fattore ne nasce un altro, naturale, comprensibile e altrettanto trasversale: l’ansia e la preoccupazione dei genitori, che tendono a compiacere il piccolo selettivo, proponendo sempre e solo i cibi accettati di buon grado purché mangi. Questo, insieme alla frequente mancanza di tempo per attività all’aperto e per la condivisione serena e giocosa della preparazione dei pasti, non fa che rinforzare il comportamento selettivo e creare ancora più sconforto nei bambini e nei loro adulti di riferimento.
Non si può prescindere, in questa breve analisi, dall’osservazione della condizione nelle mense scolastiche italiane. Dall’ottavo Rating dei menu scolastici redatto da Food Insider (https://www.foodinsider.it/) emerge l’aumento dell’uso di cibi processati (+ 6%), oltre a quello dei rifiuti da parte dei bambini e del salto del pasto a priori. Nonostante la tendenza al miglioramento della qualità del servizio, iniziata dopo la fine della pandemia anche grazie alla nuova legge che disciplina le gare d’appalto della ristorazione scolastica, i dati sul rifiuto del pasto scolastico sono gravi: il 35% dei bambini rifiuta a priori il pasto, il 31% ha paura di assaggiare nuovi piatti, solo il 14% dei bambini sembra mangiare con gusto. Riguardo all’utilizzo di cibo a filiera corta, sebbene un buon 29% delle mense del campione considerato proponga oltre 10 prodotti locali a settimana e il 13% ne acquisti almeno 5, la maggior parte dei menu scolastici italiani analizzati non ha alcun legame alimentare con il territorio, propone le stesse scelte sia al nord che al sud e utilizza molti cibi processati.

Tentando una sintesi fra i dati appena citati, ciò che suggerisce la letteratura scientifica sulla selettività alimentare e la definizione di Montanari della cultura alimentare come modo di pensare il cibo in tutto il suo percorso e il suo valore, appare chiaro che il problema va affrontato  in modo complesso: attraverso esperienze sensoriali, ricostruendo i legami con il territorio, mettendo a sistema le numerose esperienze agroalimentari e gastronomiche, fare dei vari contesti (famiglia, scuola, sanità) dei laboratori esperienziali di biodiversità culturale e alimentare. Del resto, coltura e cultura hanno la stessa origine etimologica (da cultus, participio passato di colere, attendere con cura, avere cura). È necessario pensare, dunque, a un insieme di attività da integrare a quelle educative, in famiglia e in tutti i luoghi in cui i bambini si aggregano e imparano giocando. È il nostro sguardo adulto a dover focalizzare questo punto, a spalancarsi per accogliere ogni esperienza che avvicini i nostri bambini alla natura e al territorio in cui stanno diventando grandi; metterli in contatto con la possibilità di osservare, manipolare, conoscere e quindi assaporare in modo più naturale e ludico possibile gli alimenti e le pietanze tipiche del contesto in cui vivono, integrandole con le altre sapienze che arrivano dal mondo. Perché crescere “mangiatori” sani e felici in un mondo veloce e globalizzato dipende dall’atto alimentare come azione complessa, individuale e collettiva allo stesso tempo; non un gesto automatico da standardizzare e omologare, quindi, ma un modo di essere umani biodiversi e conviviali.