Viaggiare nella mente: la magia del cinema

di Fabio Canessa

Viaggiare al cinema significa viaggiare nella mente del regista. Infatti è inevitabile che i campi, le vie, i palazzi, i mari, i deserti, le montagne siano filtrati dal lavoro degli scenografi, dall’occhio dei fotografi e dei tagli dei montatori prima di essere serviti alla visione dello spettatore. Mago dell’arte di viaggiare nel mondo interiore attraverso le immagini, Federico Fellini, per ripercorrere in maniera più autentica la Rimini della sua infanzia o la via Veneto degli anni Sessanta, rifiuta di alterarne il Genius loci andando a girare nei posti che il mondo gli presenta già squadernati. L’anima di quei paesaggi, inscindibile dalla rappresentazione conservata dalla memoria, deve essere restituita dopo che ha attraversato la mente e il cuore di chi quei luoghi li ha visti, vissuti e ricordati.

Così, evitando il viaggio nelle location naturali delle vie romane o del lungomare adriatico, Fellini preferisce ricostruirle a Cinecittà. Non precisamente così come sono nella realtà, ma come sono stati fissate, ancor più precisamente e poeticamente, nella sua memoria. Meglio se qualche distorsione muta la mappa di quei posti: così essi saranno in grado di regalare agli spettatori la freschezza di cui li ha investiti il cervello del regista. Un’operazione tutt’altro che intellettualistica: proprio perché tutto è finto (come il mare di cellophane in “Amarcord” al passaggio notturno del luccicante transatlantico Rex) tutto è ancora più vero. La verità non si misura col metro della verosimiglianza, ma con quello della fedeltà a quel luna park di emozioni che è l’archivio della memoria di ognuno di noi. E lo spirito dei luoghi non risiede nei paesaggi nudi e crudi, ma nel loro corto circuito con la percezione degli uomini.

Paradossalmente, sarebbe il rispetto scolastico della realtà a produrre un’illustrazione fasulla, che puzza di artificio. Certamente i trucchi felliniani, così spudoratamente esibiti nella loro evidente falsità, possono sconcertare un pubblico abituato alla verosimiglianza a cui si affida il cinema tradizionale (dove gli effetti sono tanto più speciali quanto meno se ne coglie la dimensione fittizia). Viaggiare al cinema procura spaesamento anche con registi meno fantasiosi ma che lavorano di collage, ambientando i loro film in luoghi reali senza però rispettarne la naturale configurazione. Capita così che un personaggio, attraversata una piazza, si ritrovi da un’altra parte della città (a volte addirittura in un’altra città), fra l’indignazione ingenua degli spettatori che, conoscendo quei luoghi, rigettano istintivamente l’estro con cui la volontà del regista ha rimontato il mondo reale. Reazione normalissima, perché la manipolazione del paesaggio da parte di un film va a sfruculiare proprio il punto nevralgico di quel delicato patto psicologico che lega lo spettatore alla fiction, per cui chi guarda accetta spontaneamente di staccare la spina con la realtà e prendere per buono quello che vede sullo schermo. Dal paesaggio, mediatore tra la dimensione reale e quella immaginaria, si pretenderebbe però il rispetto del mondo vero. Questa bigamia del paesaggio, insieme partecipe della realtà e della finzione, è uno dei più potenti elementi di fascinazione dello spettacolo del cinema e insieme causa del disorientamento di chi misura le affinità e le differenze fra viaggiare nel mondo e viaggiare nei film. Riconoscere, mentre siamo immersi in un plot poliziesco o nelle gag di una farsa, una via sulla quale noi stessi abbiamo passeggiato, il profilo di un palazzo noto o la riva del fiume da cui ci siamo tuffati contribuisce a farci meditare sulla natura più profonda dell’arte cinematografica. Serve ad accorciare la distanza fra la nostra esistenza reale e le fantasticherie di cui ci nutriamo. E al tempo stesso la rende incolmabile, presentandoci quei luoghi familiari in una dimensione straniante, rendendoli set di un sogno del quale siamo solo spettatori, negatoci dall’esperienza del viaggio concreto.