L’umanesimo musicale

di Marco Jacoviello 

Quando Mozart intraprende la carriera di libero professionista, si lascia alle spalle il cardinal Colloredo, Salisburgo, e il fantasma del padre Leopold, da sempre ombra del suo destino. I viaggi in Italia e la permanenza a Parigi non hanno incrementato di molto la sua fama di musicista prodigio, e le committenze per i teatri italiani sono minori di quanto supponesse. Ma Vienna e Praga, le due capitali dell’impero asburgico, lo attendono alle soglie dell’investitura tanto ambita. Dapprima con Il ratto dal serraglio si fa largo nella corte imperiale viennese al fianco di sospettosi italiani che dirigono il teatro e dei modesti gusti dell’imperatore.  Tra le tante conoscenze d’obbligo, Antonio Salieri in testa, kammercomponist, maestro di cappella e direttore musicale dell’opera italiana. Al di fuori del circuito cortigiano, si intrattiene inaspettatamente, e in modo fortuito, con Lorenzo da Ponte, succeduto nominalmente a Metastasio e a Cesti come “poeta aureo”, anche lui alla ricerca del successo per consolidare la nomina di “librettista di corte”.

Per evocare la fortuna, bisogna bruciare le tappe. Le mariage de Figaro non ha ancora trovato un esito melodrammaturgico. L’ostacolo del divieto di rappresentare l’opera più controversa di Beaumarchais che presenta le ragioni “rivoluzionarie” della lotta di classe per via delle audaci affermazioni di Figaro, cameriere del Conte d’Almaviva, sembra chiudere ogni aspettativa.

Lorenzo da Ponte, che si accredita l’iniziativa della riuscita dell’operazione teatrale nelle sue Memoires, sollecita Mozart a considerare il dramma, modificando l’impianto polemico dell’autore francese a tutto vantaggio di quello amoroso. Il divieto sembra raggirato, la censura tentenna, poi concede il permesso, anche se la proibizione di organizzare le danze del terzo atto sembra, fino all’ultimo, compromettere l’operazione. Ma tutto va in porto, e la sera del 1° maggio 1786, al Burgtheatre di Vienna, il successo arride alle Nozze, offuscato, tuttavia, dall’ affermazione di Una cosa rara di Vincente Martin y Solier.

La macchina teatrale approntata da Lorenzo da Ponte è un prodigio di incastri ritmici unici del suo genere, che ancor oggi fanno gridare al miracolo. Con l’avvicendamento di Mozart, Le nozze di Figaro rappresentano la perfezione assoluta del dramma giocoso. Il nucleo drammatico del conflitto tra aristocrazia e classe liberale è reso insanabile dalla volontà, mai esplicitata, del Conte di usare verso Susanna, promessa sposa di Figaro, lo jus primae noctis.

A suon di stratagemmi, travestimenti, finti appuntamenti, tranelli e scambio di persone, il gioco del Conte sembra essere approdato sotto i pini del boschetto, ma all’ultimo momento Susanna, travestita da Contessa, svela la mala fede del libertino aristocratico. Che resta da fare al Conte dopo aver insultato pubblicamente la moglie rea dell’errore che lui stesso stava per commettere?
Pressappoco, a pochi minuti dalla fine dell’opera, il dramma inscritto nei quattro lunghi atti dal librettista, si capovolge in modo inatteso per opera di Mozart, in due famosissime sestine:
Contessa, perdono, perdono, perdono.
È notte piena. Magicamente tutti i personaggi del dramma sono alla ribalta, compresa la Contessa Rosina travestita da Susanna. Il conte implora perdono dalla moglie.
Da Ponte scarta qui qualunque ipotesi di teatralizzare il momento decisivo, il climax drammatico, non concede spazio alla maniera di facile reperibilità del repertorio: nessuno spunto passionale, se non quello di definire, di scolpire nelle battute l’atto di richiesta del perdono unicamente con una sola parola profferita in tre fasi distinte, implicando in questo modo l’automatica ammissione di errore, ma non di resa.
L’esplicita richiesta del Conte, elementare solo nell’atto, appartiene ad un lungo discorso interiore, ad un monologo incessante cui perviene l’autoriflessione come limite di coscienza. Il perdono è in qualche modo il passaggio obbligato che porta ad una considerazione di sé non più autoreferenziale, che lo si chieda o lo si conceda. La disponibilità a chinar la testa di fronte all’evidenza, anche se prevedibile, non è certa. Come pure non è certa la positività della risposta.

Chiedere di essere perdonati è l’atto di consacrazione umana. Concederlo è divino.
Tuttavia, c’è qualcosa di più profondo che contraddistingue l’azione della richiesta del perdono. Ad essere chiamato in causa non è soltanto il principio che governa le relazioni umane, rispetto al quale si giudica e ci si autogiudica, ma il concetto stesso di vita civile. Generalmente si abbonda di razionalità nel rimproverare l’altrui comportamento e si portano invece un’infinità di scusanti per il proprio.

Ma quando si giunge a chiedere perdono si è colmata abbondantemente la distanza con l’altro, ci si è investiti dell’altro e le proprie ragioni non sono ritenute più “ragionevoli” di quelle rimproverate. Scatta, allora, il meccanismo di guardare in sé con gli occhi dell’altro e si chiede ma se stessi quella verifica che l’altro non reclama più se non con la sua silenziosa presenza. L’accesso a questa nuova capacità di autodiagnosi è generato dall’umiltà che non determina umiliazione, perché la chiarezza di essere caduti in errore è la prova del profondo cambiamento di prospettiva.

Per questo motivo l’umiltà di chiedere perdono comporta la grazia, anche se la gratuità della concessione non è né garantita, né automatica. Queste ragioni teoretiche costituiscono il principio universale della convivenza.  La loro essenza astratta sfugge alle comuni categorie della drammaturgia operistica, tanto delicata appare la sua formulazione.

Generalmente un finalino moraleggiante chiude le controversie operistiche, come in Don Giovanni e Così fan tutte. Nel caso di Le nozze di Figaro, da Ponte e lo stesso Mozart avrebbero potuto giovarsi del vaudeville scritto da Beaumarchais per la commedia. Invece, proprio l’episodio del perdono e della chiusa dell’opera realizzano un prodigio.

Mozart è consapevole che la più classica formula di richiesta di perdono colloca il Conte nella più alta e sorprendente vetta di spiritualità. Accanto all’indiscutibile autorevolezza del suo titolo nobiliare, il Conte raggiunge il prestigio umano per eccellenza: si ravvede, ma non si mortifica. La sua notte peregrina, invece di concludere il maldestro erotismo di un irriducibile grand viveur, svela la più sublime essenza di un uomo distratto soltanto dall’essersi invaghito di Susanna.

Non una, ma tre, infatti, solo le invocazioni scritte sul pentagramma con un’arcata melodica sostenuta nella tonalità solare di Sol maggiore. Prende inizio da una duina che lega la stessa sillaba iniziale in un solo movimento ascendente, in seguito ripetuta all’inizio del secondo senario e si appoggia apparentemente su una cadenza sospesa.
Un’aria, sospesa nel vuoto di una risposta.

Inizialmente la Contessa è sulla stessa linea del Conte, ma la versificazione pone l’urgenza di aumentare la durata di una nota per eguagliare il ritmo complessivo. La voce della Contessa non è un’eco di quella del Conte. Per questo la scrittura musicale comporta l’aggiunta di un’acciaccatura sulla prima sillaba di sono (poi ripetuta sul sì finale, ma solo per questioni di simmetria) che ha la capacità di prolungare di una battuta il valore ritmico. In successiva istanza, una dolcissima coloratura sulla riesposizione della seconda parte del verso “e dico di sì”, dà luogo alla più completa assoluzione:

Più docile io sono, e dico di sì.

Mai perfezione musicale ha trovato un significativo sostegno filosofico enunciato unicamente da due semplici linee vocali come questo piccolo duetto coniugale. Non si tratta solo di perdono, di rappacificazione tra marito e moglie, di felicità ritrovata e condivisa. Il perdono non è autoreferenziale, non si autolimita ma immette in una categoria ancora più grande: il perdono promuove la pace, la più sublime di tutte le invocazioni, la più cercata, la più smentita.

Un oceano di pace è il presupposto musicale di questa gemma mozartiana. All’interno di questa base armonica un infinito inscritto in poche battute chiama in causa la pacificazione tra uomini come presupposto di pace, una pace perpetua, universale. Una pace kantiana.
Ed al suon di lieti canti, andiam tutti a festeggiar!

Tratto da: Marco Jacoviello, L’opera e il suo destino, Perugia, Morlacchi, 2025.