Raccontare paesi, raccontare un Paese

      di Francesco Falaschi

Da alcuni anni si susseguono regolari appelli da parte di personaggi molto noti del cinema e della televisione affinché si pensi al cinema come materia scolastica curriculare.
Ben vengano queste  prese di posizione, ma forse si rischia di non tenere  conto che dal 2018, tra le molte altre attività di cultura cinematografica nelle scuole, ne esiste una diffusa in modo capillare riguardo all’educazione all’audiovisivo, e si chiama  “Cinema per la scuola”, con sezioni dedicate ai Laboratori  sul linguaggio filmico e alle “Visioni fuori luogo”, con produzione di audiovisivi su zone  marginali o problematiche.

Per esperienza personale, nella duplice veste di docente di scuola media superiore e regista e formatore di cinema,  “Cinema per la scuola”  ha permesso di creare   vari laboratori  partecipativi,  dei quali due durante la pandemia, dove si sono incrociati il tema di quel periodo anomalo e quello del vivere in provincia.

Studenti di Grosseto e del Monte Amiata, come successo anche in tante altre parti d’Italia,  hanno fornito la loro testimonianza sulla didattica a distanza,  sui cambiamenti dati dai periodi di isolamento, sulla miseria e la nobiltà dell’assiduità ai social;  temi arricchiti nel caso dei ragazzi amiatini dalla riflessione sul futuro che alcuni vedono in patria,  altri lontano, in una riflessione molto sfaccettata che si interroga se  andare o restare, se raccogliere il testimone o tentare altrove, se resistere con orgoglio allo spopolamento e al fascino di altri contesti  o  viceversa sentire il luogo di nascita troppo stretto.

Da questi documentari (Lontani, vicini Un anno vissuto separatamente) realizzati in uno stile appunto partecipativo e quindi in cui si stenta ovviamente e giustamente a riconoscere uno stile particolare, esce però in modo netto  un ritratto di questi ragazzi di provincia ben poco provincialistici  e una serie di opinioni, magari fornite a caldo ma non per questo banali,  su un periodo, quello della pandemia più intensa,  che autori di televisione e cinema hanno, volontariamente o meno, quasi del tutto rimosso dai loro racconti; e in parallelo si delinea uno sguardo diretto sul mondo dell’Italia interna che altrove  rischia di essere  raccontato fin troppo positivamente,  con un retorica del locale e del localismo che esalta ogni presunta tradizione e bellezza aprioristicamente e acriticamente, e  non fa certo bene a un rilancio autentico dei borghi e dei piccoli centri che farebbe la ricchezza (per dirla con Rossano Pazzagli) di un “Paese di Paesi” come l’Italia.

In generale,  in un momento in cui si rischia che  la sala cinematografica perda il suo valore economico e ancor più culturale,  e si teme  che pochissime persone  (o comunque molte meno di prima)  si trovino a decidere  quale  tipo di  cinema debba raccontare questo paese, la ricchezza di potenzialità dei laboratori nati grazie a “Cinema per la scuola”    mi sembra che possa generare  un cinema diffuso da incoraggiare e coltivare, e  un  patrimonio a cui non si debba  rinunciare, anche in vista di una maggiore istituzionalizzazione della “disciplina  cinema” nelle scuole.