Le donne nelle narrazioni oscure

final girl e orchidee nere


di Beatrice Galluzzi

    

Spesso, quando si pensa alle donne nelle narrazioni thriller e horror, la parola che viene in mente è vittima. Perseguitata da un serial killer, inseguita, uccisa o, nella migliore delle ipotesi, sopravvissuta, la donna protagonista difficilmente ricopre il ruolo di persecutrice o, in genere, di cattiva – cattiva in senso gratuito, e non per reagire a un torto subito. Se torniamo indietro di qualche decennio, troveremo la rivalsa del genere femminile negli horror, le final girl, ovvero le ragazze apparentemente ingenue che si dimostrano vincenti, riuscendo a sconfiggere il cattivo di turno e arrivare vive alla fine del film – pensiamo a Laurie Strode in “Halloween”, Nancy Thompson in “Nightmare”, Ellen Ripley in Alien”.
Fu la studiosa Carol J. Clover, nel 1992, a coniare il termine final girl nel suo saggio sulle donne negli horror “Men, Women, and Chainsaws” (“Uomini, donne e motoseghe”), offrendo una prospettiva rivoluzionaria sulla creatività e l'influenza che il cinema horror ha sulla cultura popolare. La Clover ha studiato i film slasher degli anni ʼ70 e ʼ80, e ha identificato la ragazza finale come colei a cui stato concesso il "privilegio" della sopravvivenza grazie alla sua implicita superiorità morale (per esempio, nei film è l'unica che rifiuta il sesso, la droga o altri comportamenti simili, a differenza delle sue amiche, che muoiono per prime).
E quando invece sono le donne a essere le aguzzine di turno? Ad assecondare il proprio lato oscuro anziché lottare perché le cose si risolvano – come, in qualche modo, vuole il galateo sociale. Le cattive appaiono in molte rappresentazioni letterarie (e poi cinematografiche), da sempre, a partire dallʼimmaginario classico, con le dee distruttive della mitologia, le streghe, le matrigne delle favole il cui ruolo si è evoluto, passando da antagoniste e protagoniste positive – come Maleficent, a cui è stato aggiunto un risvolto rassicurante, materno, una malefica che però si redime. Ma molti personaggi femminili disturbati e disturbanti non hanno bisogno di alcuna compensazione emotiva che ne smorzi lʼinfamia – perché no, non è detto che in loro si celi, in fondo, anche la bontà. Ed è quando lʼideatrice di questi personaggi si rivela essere unʼaltra donna, che si sollevano le polemiche. Prendiamo le protagoniste di Gillian Flynn, autrice di romanzi neri da cui sono stati tratti film di successo come “Gone Girl”, “Dark Places” e la serie tv “Sharp Object”. Più volte è stata accusata di essere misogina solo perché scrive di donne in crisi, bugiarde e infami. É come se accusassero Stephen King di avere qualcosa contro il genere maschile perché i suoi i mostri, per la maggior parte, sono uomini, o di essere misogino per aver creato Annie Wilkes di “Misery”. Davvero una donna deve giustificarsi se le sue protagoniste sono antieroine e, soprattutto, antisociali? In un articolo intitolato “I was not a nice little girl” la Flynn piange la mancanza di donne spostate, irascibili, brutali. Donne spaventose. “Il punto è che le donne hanno passato così tanti anni a potenziare se stesse che non abbiamo lasciato spazio per riconoscere il nostro lato oscuro. I lati oscuri sono importanti. Dovrebbero essere coltivati come brutte orchidee nere.” 
Ma Gillian Flynn non è certo l'unica a coltivare le sue orchidee nere. E ci sono anche molte sue colleghe dietro a libri, film o serie tv definite persino più “maschili” - distinzione che traccia il famoso spartiacque per cui c'è il genere “rosa” da un lato e quello “nero” dall'altro. Al festival Marea Noir di Donne Difettose, tenuto anche quest'anno a San Vincenzo, ci sono state molte ospiti a trattare di questo argomento: non solo le donne come protagoniste oscure, ma anche le donne come creatrici di storie cupe e violente. Sono state nostre ospiti scrittrici e cultrici del genere nero e horror, tra cui Emanuela Cocco, Cristiana Astori, Giorgia Lepore, Violetta Bellocchio e Barbara Petronio, autrice di serie tv come “Romanzo Criminale” e “Suburra” – in molti hanno chiesto “Ma davvero quelle serie le ha scritte una donna?”. Ebbene, sì. Così come si è parlato, allʼinterno della rassegna, di Shirley Jackson, elegante maestra del gotico degli anniʼ50, e modello di riferimento proprio di King – tra i libri della Jackson cʼè “L'incubo di Hill House”, da cui è stata tratta la fortunata serie tv Netflix. 
Il passo in avanti, quindi, è dovuto nellʼaccettare che le donne abbiano il talento e la virtù di creare riuscitissime storie oscure, narrazioni truci e violente. Perché la donna è creativa, creatrice, genera la vita, è vero, ma allo stesso tempo deve essere libera di prendesi cura delle sue orchidee nere e, se ne ha voglia, coltivare funghi velenosi.