Musica elettronica: dalle origini all’AI

di Gianluca Becuzzi

Prima che Thomas Edison inventasse il fonografo, antenato del giradischi, la musica poteva esser fruita unicamente nel tempo e nello spazio nei quali veniva eseguita. In principio fu il grammofono, poi la radio, la TV, i vari lettori e relativi supporti, infine, con l’avvento del web, il suono da fisico è divenuto liquido, una sequenza binaria di 0 e 1. Oggi la musica è ovunque. Possiamo attingere a sterminati archivi digitali e riprodurre qualsiasi titolo con un solo tocco.
Così, da decenni, tutti parlano di musica elettronica, ma chi di noi si ricorda come è iniziata questa storia? In senso stretto, tutta la musica registrata è musica elettronica, dato che è prodotta attraverso l’impiego di macchine elettroniche. Lo studio di registrazione stesso è una complessa macchina capace di fissare, organizzare e riprodurre suoni attraverso circuiti elettronici. Più convenzionalmente, però, indichiamo come musica elettronica quella che all’impiego degli strumenti tradizionali preferisce i mezzi tecnologici e su questi edifica i propri linguaggi e la propria estetica.
L’attitudine non-tradizionale di queste forme ha da sempre portato a interpretarle come una rappresentazione della modernità più spinta. Per questa ragione, una ricognizione storica sul suono elettronico e sulle sue origini può illustrare l’immaginario collettivo di una data epoca; rivelarci con quali speranze e timori le società a cavallo tra il secolo passato e il presente hanno guardato al mondo a venire.

Nel secondo dopoguerra, i primi ingombranti strumenti per produrre musica elettronica, a causa dei costi elevati, erano a disposizione di pochi ricercatori, come il francese Pierre Schaeffer o il tedesco Karlheinz Stockhausen, che con essi sperimentavano all’interno di radio nazionali e università. Questi pionieri erano comunemente percepiti come scienziati pazzi, intenti a cavare rumori astrusi e pernacchie dalle loro bizzarre apparecchiature e non di rado venivano pubblicamente trattati con diffidenza se non addirittura dileggiati, come avvenne in RAI al povero John Cage, vittima del bullismo per famiglie di Mike Bongiorno.

Il grande pubblico familiarizzò per la prima volta con le sonorità elettroniche negli anni ‘60 a mezzo di jingle pubblicitari, sigle di trasmissioni radio-televisive, colonne sonore di serie e film, meglio se a tema fantascientifico. Esemplare la sigla del celebre “Doctor Who”, firmata da Delia Derbyshire per la BBC inglese. Quelle musiche si intonavano alla perfezione con l’ottimismo che pervadeva gli anni del boom economico e con la visione di uno smagliante futuro tecnologico. Un mondo di luci intermittenti e comandi a bottone dove le consolle di astronavi spaziali e i nuovi marchingegni musicali finivano per apparire identici. La commercializzazione su vasta scala dei sintetizzatori creati da Robert Moog, più economici dei precedenti, permise l’accesso degli artisti pop e rock all’elettronica. Tra fine ’60 e primi ’70, i suoni elettronici plasmarono intere categorie della popular music: psichedelia, space rock, symphonic e progressive, kraut e kosmische muzik. Dai Tangerine Dream al giovane Franco Battiato, l’esplorazione dello spazio cosmico e quello non meno vasto della mente è la prassi della generazione lisergica, cullata dalle frequenze acide della sintesi sottrattiva. Da Dusseldorf, i Kraftwerk dimostrano che si possono scrivere perfette canzoni pop-cibernetiche impiegando unicamente strumenti elettronici, mentre Giorgio Moroder, complice la voce di Donna Summer, porta la disco music a base di synth sulle piste da ballo e in vetta alle classifiche internazionali.

L’arrivo di una nuova generazione di strumenti come campionatori, sequencer e drum machine alimenta il mercato e incendia la creatività del post-punk che, a cavallo tra fine ’70 e primi ’80, dà vita a un’epoca irripetibile. Ci sono tutte le luci e le ombre, le tensioni e gli slanci di quegli anni nei brani più elettronici dei Joy Division prima e dei New Order dopo, nelle musiche dei Suicide e degli Human League, nel rumorismo ferale di Throbbing Gristle, Cabaret Voltaire e SPK. Contestualmente, l’elettronica nelle mani della comunità nera crea l’electro, le prime forme di rap/hip hop e la rivoluzione techno, che sta alla dance come il punk sta al rock.

Ne conseguirà l’affermarsi del DJ come nuovo guru della rave culture e i party illegali e base di droghe sintetiche. Infine, con il sopraggiungere dell’ultimo decennio del secolo scorso, irromperà sulla scena internet e da lì in poi niente sarà più uguale. Oggi, l’ultima sfida pare riassumersi nell’acronimo AI, artificial intelligence, una sfida non solo per la musica ma per tutte le sfere della creatività. C’è chi ne è molto turbato. Per l’umanità le innovazioni tecnologiche hanno sempre rappresentato una fonte tanto di speranza, quanto di preoccupazione. E noi, per dirla con Umberto Eco, saremo tra gli apocalittici o fra gli integrati?