La corsia degli incurabili

di Marco Jacoviello

…se la musica è l’ospedale degli ammalati, l’opera è la corsia degli incurabili!
Parole di Gustav Mahler.
C’è da crederci?
A ben vedere, non più. Dopo le “purghe” stabilite da Riccardo Muti alla Scala, primi anni Novanta, che han fatto fuori metà degli incontenibili loggionisti alla vigilia dell’andata in scena di una Traviata dopo Callas preannunciata bollente, il teatro d’opera si è sentito riconsegnato ai benpensanti che indulgono al massimo a critiche borbottate e nulla più. Scampato pericolo, l’idea complottistica vinse. Quelle recite passarono indenni senza incidenti: niente cantanti “buati”, direttori fischiettati, registi contestati.
Ah, melomani, vil razza dannata! Rimasero fuori dal decretone un numero ridottissimo delle poltroncine di loggione occupate però da abbonati facilmente riconoscibili nel caso non si trovassero in “non perfetta” sintonia  mutiana, ma i molti “indesiderati”, resi ancor più diversi dal diniego loro imposto, fuori teatro, a meditar vendetta. Le purghe arrivarono financo alla RAI con il divieto di accesso a teatro dei due melomani stragettonati su Radio3, Enrico Stinchelli e Michele Suozzo, animatori del varietà radiofonico La barcaccia.
Gli altri teatri, da allora, subirono il fascino mutiano e andarono cautamente in quella direzione. I melomani più scalmanati, condizionati all’esprimere giudizi sonori e indicati a dito da solerti mascherine, subirono la sorte delle minoranze, l’estinzione. L’età degli stessi cominciò a subir seri contraccolpi. Con il risultato che il mancato rinnovamento delle generazioni all’opera, del tutto disertata da quelle giovanili e forzatamente anche dai cultori più accaniti, iniziò la sua audace corsa verso il nulla.
Senza la diversità dei melomani, l’opera è un piattume di parvenu.
Tuttavia, se si riconoscesse seriamente all’opera lirica la sua essenza sublime e chiassosa, si sarebbe costretti a rintracciarla fuori Italia. Bastarebbe girare l’angolo e troveremmo intonse le sedi prestigiose dell’opera di Vienna, Parigi, Aix en Provence, Barcellona. Là ancora sopravvivono covi di melomani affezionati al loro mestiere di gridare “bravo” all’italiana anche alle interpreti femminili, e “brava” ai tenori che non piacciono. Il mestiere più antico che l’opera conosca, quello del palcoscenico che duetta splendidamente con quell’altro, quello della sala,  in quei teatri, non fa paura. Anzi, viene riconosciuto come un pane quotidiano di vitalità.
A Salisburgo, si “buano” sempre i registi, Romeo Castellucci in testa che nel 2021 per Don Giovanni creò un finale tragico concepito sulla nuda veritas dell’interprete. Anche nel tempio sacro a Wagner di Bayreuth, contestazioni a fiume per un Lohengrin realizzato da Hans Neuenfels nel 2010 come in una topaia. A Verona, invece, si applaude incondizionatamente al manierista Zeffirelli.
Ricordo serate incandescenti alla Scala: nel 1970 Renata Scotto inviperita e bersagliata nei Vespri siciliani accanto ad una Callas in barcaccia osannata all’inverosimile. Nel 1983 Pavarotti fischiettato per un finale di Lucia di Lammermoorpoco convincente. Nel 1989 Giorgio Zancanaro e Chriss Merrit improvvisamente contestati dal pubblico nei Vespridiretti da Muti. Entrambi gli interpreti sorpresi, irritati, a chiedersi dietro il sipari, a chi mai fossero dirette quelle palesi contestazioni. Mistero dell’opera.  A posteriori si seppe che l’obiettivo sarebbe stato il Maestro, sempre meno amato specie nelle alte sfere della programmazione artistica, e destinato a rassegnare le dimissioni a breve. Ricordo nel 1972 anche un’Elettra con Birgit Nilsson diretta da Wolfgang Sawallich con pubblico in delirio, boati da stadio fumante di gloria all’uscita della protagonista, un trionfo epico, indimenticabile. Nel 1987 una Salome con la divina Montserrat Caballé addobbata da Gianni Versace costretta a cantare in proscenio, mentre la regia di Bob Wilson prevedeva l’azione drammatica mimata in secondo piano. Che disastro, e che trionfo! Il disastro per Wilson, il trionfo per lei. Serata storica portata all’ennesima potenza dai clamorosi fischi dei melomani accaniti verso il reo Wilson.
Serate così, imprevedibili e impreviste, mosse da spiriti emotivi, con dissensi o consensi fuori norma, ne capitano ormai pochissime. E se il pubblico si fosse ridotto a cliché? E se i melomani, a forza di cure forzate al silenzio e riduzioni di ingressi o, peggio ancora, costo inavvicinabile dei biglietti, si trovassero irrimediabilmente sanati dalla mania dell’opera, del belcanto, del mito della primadonna, e non reclamassero più quella parte di verità mostrata ai grandi ed ai potenti, ma rivelata soltanto agli ultimi, quelli del loggione?
All’Opera, il rinnovo generazionale ha fatto cilecca: platee semivuote nelle recite specie serali, vecchi abbonati che per ragioni d’età preferiscono lo streaming alla presenza in carne, sale riempite soltanto da recite fuori abbonamento destinate alla scuole. Una programmazione, quest’ultima, frutto dell’apertura al sociale caldeggiato dalla parte progressista della società e della cultura, ma che da almeno trent’anni non è riuscita nel compito di facilitare la conoscenza culturale dell’opera. Semmai, con il gran daffare dei docenti, ha accontentato il momento emozionale negli studenti i quali, pur stravolti dalla drammaturgia nonsense internettiana, sono sempre stupiti dalla trama “incredibile” di un’opera lirica, ma sanno ancora commuoversi nei momenti celebri della musica drammatica.
Una scommessa: chi riesce a raccontare la trama di La forza del destino senza scompaginarsi in sonore risate è un campione. Eppure, quando entra Giuseppe Verdi già dalle prime battute, tutto cambia: il registro dell’attenzione al dramma è al massimo, la commozione a fior di ciglia, e una manciata di sollecitazioni musicali bussano alla porta del cuore per chiedere perché mai la musica lirica sia  capace in poche battute a risvegliare nei cuori addormentati l’indizio della verità ivi custodite che  aspettano a emanciparsi , farsi conoscere dalla coscienza,…beh, questo è davvero il vero  enigma dell’Opera.
Cosicché, se l’abbandono della genìa di melomani contraddistingue una vera rivoluzione nel teatro dell’opera, sembra giusto riconoscere a questi “incurabili” dei vocalizzi, forse ignari dello stesso solfeggio, il ruolo di testimoni e custodi di un’avventura mitica che trovava nel melodramma una corrispondenza ai modelli della società. Mozart e Bellini per l’aura classica, Verdi per l’idea eroica romantica, il languore di Puccini per il Decadentismo. Poco più avanti, una manciata di verismo per riscaldare le passioni dell’anima e ammortizzare l’intelletto, poi compare Strauss che fa del teatro musicale l’avventura della borghesia d’oltralpe. Grazie al cielo sono intanto arrivati sulla scena Stravinskij e Bernstein: il maggiore musicista dell’Novecento, un gigante nonostante l’altezza non proprio vertiginosa secondo il discretissimo giudizio di chi scrive, e il maggiore drammaturgo musicale che il secolo breve abbia conosciuto. I melomani hanno abbracciato il secondo, riconosciuto ed estimato il primo. Ma con quali fatiche!  The Rake’s progress, opera con un libretto perfetto, sembra scritta per un pubblico di bocca buona. I melomani non l’hanno mai digerita.  E che dire della luminosissima andata in scena alla Scala di West Side Story in scena nel settembre 2000, riconosciuta finalmente negli anni Novanta come opera tout court soltanto a più di quarant’anni dalla prima di New York, nonostante Bernstein come direttore fosse stato “imposto” da Maria Callas già dal 1957?
Chi rimane all’orizzonte?
La stella cult di Andrew Lloyd Webber.  Semina trionfi per un pubblico generalista che affolla le recite del Fantasma dell’opera,  sortilegio melodrammatico che da più di trent’anni manda in delirio generazioni di spettatori. Il nuovo pubblico vuole il musical. Così l’autore ci rammenta che i vecchi fantasmi dell’opera esistono ancora, dobbiamo tenerceli cari. Non hanno ancora perso la loro carica divinatoria.