L’industria della musica in Italia esiste (ancora) 

di Marco Bracci 

Sono lontani i tempi in cui la RCA sbarcava a Roma (1953) con il 45 giri che iniziava a conquistare l’Italia e la Ricordi apriva a Milano nello stesso anno in cui l’industria italiana della popular music diventava quasi improvvisamente internazionale, grazie a Domenico Modugno e alla sua Nel blu, dipinto di blu. Nell’arco di un anno dal debutto al Festival di Sanremo 1958, Modugno vendette nel nostro Paese circa 800.000 copie e a livello mondiale e circa 22.000.000 di copie in diverse versioni. Nello stesso anno, a Milano, Nanni Ricordi e Franco Crepax fondarono la Ricordi, che si distinse da subito per il ruolo che giocò come vera artefice del processo creativo di rinnovamento della canzone italiana, sperimentando nuove voci e segnalandosi come una vera fucina di talenti.

Sono lontani i tempi in cui il consumo di musica, tramite il jukebox, la TV, la radio e in particolar modo i dischi, acquisiva un nuovo ruolo culturale per i giovani italiani, ed economico per l’industria discografica. Ma sono lontani anche gli anni ’60 e gli anni ’70, durante i quali l’industria musicale italiana era l’industria “del disco”, soprattutto quello a 33 giri. Abbiamo addirittura una memoria sbiadita (e i giovani della Generazione Z non ne hanno proprio memoria) delle musicassette prima, e dei CD poi, i quali negli anni ’80 rappresentarono non solo una nuova evoluzione tecnologica, ma decretarono anche la (quasi) morte del vinile.

Tra il 1980 e il 1985 il fatturato derivante dalla vendita di musica di provenienza internazionale incrementò di 60 miliardi di lire fino a sorpassare quello italiano. Se nel 1980 la popular music italiana fatturava 65 miliardi di lire e quella internazionale 50 miliardi, nel 1985 la situazione era cambiata: 107 miliardi di lire contro 110 miliardi.

Come non ricordare poi la svolta produttiva, creativa e comunicativa avviata da Videomusic nel 1984? Videomusic fu una rivoluzione culturale in ambito musicale: il primo esempio in Europa di canale completamente dedicato alla musica, ideato e fondato da Marialina Marcucci e diretto da Pier Luigi Stefani, con l’intenzione dichiarata di rivolgersi a un pubblico medio-alto, con un’attesa di consumo culturale elevata; questa fu l’epoca del videoclip, che contribuì a rinnovare il palinsesto della televisione italiana la quale, nella “musica per immagini”, seppe scoprire spazi nuovi dedicati al pubblico degli adolescenti e dei giovani. 
Videomusic impose un modello di televisione che abbracciava l’universo giovanile, sposandone i codici linguistici, i tempi, le mode e i simboli. Contribuì a riportare in alto le vendite degli artisti e dei gruppi italiani, che, dalla seconda metà degli anni ‘80 conobbero un periodo di successo, culminato nel boom del decennio successivo; se all’inizio la produzione di video musicali in Italia fu una prerogativa quasi esclusiva degli artisti più sperimentali, dalla seconda metà degli anni ‘80 divenne una pratica sempre più diffusa; nell’arco di soli cinque anni il videoclip diventò una pratica indispensabile e senza dubbio rilevante nel ristabilire i caratteri, le dinamiche e le logiche dell’industria musicale.
 
E poi? Eh, facendo un salto in avanti, verso la fine degli anni ‘90, ecco che tutto cambiò nuovamente: Napster, il downloading illegale, le major del disco che si opposero ferocemente contro questa nuova dimensione della produzione e del consumo, caratterizzata dalla de-materializzazione della musica, per poi comprendere che forse avrebbero potuto e dovuto prendere atto dei cambiamenti e delle nuove prospettive che si sarebbero potute presentare per rinvigorire un’industria in chiara difficoltà. Dall’inizio del XXI° secolo la rivoluzione digitale ha assunto proporzioni gigantesche ed estremamente pervasive, imprimendo un nuovo andamento al mercato discografico e richiamando l’industria del settore a ripensarsi e ridefinire i propri ruoli.

Ma oggi, nel 2022 esiste ancora un’industria della musica? Certo che sì! È mutata ma è viva e vegeta, come testimonia anche l’ultimo rapporto - il Global Music Report - rilasciato nel mese di marzo da parte della IFPI .

La vitalità è evidente anche in Italia: dati alla mano, il nostro Paese dopo cinque anni è tornato nella top ten dei più importanti mercati a livello globale con un 27,8% di crescita e oltre 332 milioni di euro di ricavi. Il settore è stato trascinato dai ricavi dagli abbonamenti alle piattaforme streaming (con un +35,6% del segmento premium). Impatto determinante vi è stato anche nell’area video streaming sostenuta dalla pubblicità con un +46,3%. Nel complesso, tutto il segmento tra audio e video streaming è cresciuto del 24,6% arrivando a 208 milioni di euro di ricavi. Nel 2021 i consumatori italiani hanno speso oltre 19 ore settimanali nell’ascolto di musica; nel mercato “fisico”, il vinile prosegue la sua crescita: dopo aver superato i CD all’inizio del 2021, ha visto un incremento pari quasi al 79%. Addirittura aumentano anche i ricavi da altri formati come le musicassette (+245%).
 
L’anno passato ha anche visto la crescita dei ricavi per le vendite di musica italiana all’estero: le royalty generate dall’estero sono aumentate del 66% arrivando a circa 20 milioni di euro.
 
Questi dati ci ricordano che il percorso iniziato dall’industria italiana della musica negli anni ’50 è giunto a un momento di svolta, e che esiste (ancora) un’industria, sempre più ibrida; infine, gli ultimi rilevamenti di mercato ci ricordano che il nostro Paese potrà continuare ad avere un ruolo di primo piano in ambito musicale solo se riuscirà a mantenere un equilibrio dinamico tra qualità della produzione, innovazione tecnologica e ascolto dei propri pubblici.