“Si scrive la storia della guerra e non si scrive quella della pace” (Gandhi)
di Paolo Mazzucchelli
“Nella millenaria letteratura sul tema della guerra e della pace si possono trovare infinite definizioni di guerra, mentre si trova di solito una sola definizione di pace, come fine o cessazione o conclusione o assenza o negazione della guerra, quale che ne sia la definizione”, scriveva Norberto Bobbio.
La guerra è dominante, nella letteratura e nell’arte, molto più facilmente rappresentabile che non la Pace.
Forse è per questo che anche sulle copertine dei dischi raramente la pace si trova rappresentata e, comunque, solo per un periodo di tempo limitato e ben preciso che va, tranne poche eccezioni, dalla fine degli anni ‘50 sino alla metà dei ‘60.
Anni in cui la pace, l’antimilitarismo e le lotte per i diritti civili delle persone di colore sono parole d’ordine e obbiettivi prima della beat generation e poi del movimento hippie.
Proprio in quegli anni col termine folk revival si definì il passaggio di testimone dai padri della folk music americana alle giovani leve che portarono musiche, testi ed istanze ad un pubblico sempre più ampio, rivestendole anche di un nuovo sound elettrificato. Di quei momenti pieni di fervore civile e sociale oltre che artistico sono testimoni copertine come quella di “We shall overcome” (1963) il live di Pete Seeger che, con una semplice fotografia, ben rappresenta lo spirito comunitario e antirazzista parte integrante, oltre che della famosa canzone, dei concerti del grande cantautore.
Il batterista Max Roach e il paroliere Oscar Brown passano buona parte del 1959 alla lavorazione di “We insist! Freedom now suite” (1961). album che si rivelò opera talmente esplicita nell’affrontare e trattare tematiche legate alla questione razziale da rendere il musicista “non grato” all’industria discografica, con conseguente esclusione da molti lavori in sala d’incisione. A sottolineare il contenuto sonoro dell’opera, una splendida copertina che mostra tre afroamericani seduti al bancone di un bar. Ci si aspetterebbe siano musicisti coinvolti nel disco, mentre in realtà si tratta di tre attivisti per i diritti civili impegnati in una delle proteste pacifiche del periodo, in particolare un sit in all’interno di un bar per soli bianchi.
A raccontarci graficamente le grandi manifestazioni pacifiste che caratterizzarono il decennio dei ’60 negli stati Uniti è una delle foto sul retro della copertina del secondo album di Peter, Paul & Mary, “In the wind” (1963) dove, sulla destra, vediamo il trio impegnato in una performance a sostegno di uno di quei momenti di mobilitazione.
Manifestazioni spesso represse in maniera violenta come ci ricorda la copertina di “You never knowwhoyour friends are” (1969) di Al Kooper.
Fra gli esponenti più radicali della protesta pacifista spicca il nome di Country Joe & The Fish che esordirono discograficamente con l’inno “I feel like I’mfixin’ to die”, un EP del 1965 venduto ad un prezzo basso per favorirne la maggior diffusione possibile (considerato il primo esempio di un disco usato come strumento di propaganda) e alloggiato in una confezione tanto spartana quanto affascinante.
John Lennon e Yoko Ono non restarono insensibili alle istanze pacifiste cui decisero di dare visibilità e risonanza con una delle manifestazioni più originali di sempre durante il “Bed-in” in un hotel di Montreal.
Alla domanda di un giornalista su cosa stessero cercando di ottenere rimanendo a letto, Lennon rispose: "Date solo una possibilità alla pace", frase che divenne dapprima un mantra in ogni intervista ed in seguito una delle sue canzoni più famose, oltre che l’inno del movimento contro la guerra durante gli anni '70.
Il singolo “Give peace a chance”, pubblicato nel luglio 1969, uscì con diverse copertine alcune delle quali francamente incomprensibili,
o scorrette come nell’edizione Israeliana dove in copertina figurano i Beatles,
con l’unica eccezione, arrivata però negli anni ’80, dell’edizione tedesca.
Quattro anni più tardi sarà George Harrison a pubblicare un singolo in cui chiede “amore e pace sulla terra”, contrassegnato graficamente in molte edizioni dalla sacra sillaba induista del OM a rimarcare il percorso di profonda spiritualità che aveva intrapreso ormai da tempo.
Il più noto fra i simboli della pace, creato nel 1958 da Gerald Holtom, rappresenta un cerchio con due linee che si incontrano nel centro, rivisitato nel disco “Music for peace” del 1970 della pianista e compositrice jazz Mary Lou Williams come momento di unione fra bianchi e neri
e in maniera decisamente più polemica, e forse anche fuori luogo, dai Cult nella raccolta “Electric Peace”targata 2013.
Sempre restando nel campo dei simboli come non ricordare la colomba bianca in mano ad un uomo di colore che fa bella mostra di sé sul “Greatest Hits” (1974) dei Santana
o il celeberrimo logo del festival di Woodstock che pur non finendo in nessun album divenne, leggermente modificato, quello della “Peace Tape Production”, una sedicente casa discografica siriana dedita alla produzione e commercio di cassette audio pirata.
Gli anni ‘70 fanno i conti con la grande disillusione di veder naufragare il sogno di una società migliore lasciando spazio, da una parte a scoramento ed edonismo e dall’altra ad una radicalizzazione delle forme di lotta, rivendicazione e comunicazione. Un’evoluzione che ritroviamo poi nelle grafiche delle copertine dei dischi che, da allora sino ad oggi, più che “mandare” messaggi e segni grafici di pace paiono concentrarsi sulla sottolineatura delle storture della nostra società come mezzo di sensibilizzazione, militanza, lotta.
L’avversione alla guerra viene così rappresentata in diversi modi a seconda della sensibilità personale (e politica) di artisti e grafici: la parata di strumenti sul retro della cover di “Ummagumma” (1969) dei Pink Floydè una risposta alla foto di un caccia americano sulla pista di decollo con tutte le armi di offesa a sua disposizione, pronto ad un’azione di guerra in Vietnam apparsa sulla copertina del settimanale Time.
Spetterà al Banco Del Mutuo Soccorso rappresentare una delle terribili conseguenze della guerra con la raffigurazione, nell’interno copertina del loro primo album (1972), della morte del “vecchio soldato” protagonista del brano “R.I.P. (Requiescant in pace)”
I Rage Against The Machine scioccarono il mondo sbattendo sulla copertina del loro album di debutto (1993) una delle più estreme proteste pacifiste, quella immortalata a Saigon nel 1963 da uno scatto di Malcom Browne della Associated Press che mostra il monaco buddista Thích Quảng Đức, mentre si dà fuoco per protestare contro il regime del presidente vietnamita Diem.
La band di Filadelfia MFSB dichiara chiaro e tondo che “L’amore è il messaggio” (1973) pur in un mondo pieno di violenza, sopraffazione e morte come tratteggiato nel disegno di copertina,
mentre Curtis Mayfiled e James Brown riflettono “amaramente” sull’America e le sue profonde contraddizioni, rispettivamente nei loro albums del 1975 e del 1974.
Un forte richiamo alla dignità del lavoro può passare anche attraverso gli impressionanti scatti realizzati da Sebastião Salgado nella miniera d'oro della Serra Pelada, parte integrante della copertina di “Casual gods” (1988) di Jerry Harrison.
Non può esservi Pace senza libertà, giustizia sociale e rispetto per tutti gli esseri umani e per la Terra che abitiamo.
In questo contesto vanno lette le copertine di questo mio intervento, artworks come strumenti di riflessione, dibattito e perché no, mobilitazione per un mondo migliore ove vivere in pace non sia solo un’utopia.