Troppo spesso ci si dimentica che dietro alla Star, al nostro gruppo o artista del cuore c’è un essere umano, con tutte le sue peculiarità, il talento ma anche dinamiche affatto serene, fantasmi… vulnerabilità.
Un caro amico raccontandomi della sua vita on the road come frontman di una delle più longeve band italiane ne sottolineava le fatiche (fisiche oltre che mentali) derivanti dal calendario zeppo di impegni, dalle aspettative dei fans, dalle pressioni di management e casa discografica, dalla mancanza di privacy che la fama porta inevitabilmente con sé. “Oh intendiamoci, comunque sempre meglio che lavorare in miniera!” era l’immancabile frase conclusiva.
L’immagine della rockstar sempre sorridente e disponibile ha cominciato a vacillare già sul finire degli anni’60 grazie anche ad un giornalismo sempre più interessato a raccontare un’immagine “a tutto tondo” dell’artista, spesso spinto in questa direzione dal tutt’altro che nobile obbiettivo di soddisfare l’interesse morboso di una parte dei lettori. Non serve un’analisi particolarmente profonda per leggere nei volti dei quattro Beatles ritratti sulla copertina di “For Sale” da Robert Freeman la stanchezza e l’insofferenza nei confronti dei ritmi sempre più frenetici che venivano loro richiesti ed imposti.
Numerosi fotografi al seguito dei più svariati tour si sono dimostrati particolarmente efficaci nel raccontare il “dietro le quinte” della vita on the road, consegnandoci scatti tanto iconici quanto toccanti nel mostrare la vulnerabilità di coloro che sino a pochi minuti prima erano riusciti e “tenere in mano” platee con diverse decine di migliaia di adoranti fans. La Janis Joplin immortalata da Jim Marshal fa il paio con quella sua famosa frase: “Sul palco faccio l’amore con 25.000 persone, ma poi torno a casa da sola”.
Il rapporto problematico con la dipendenza da alcol e sostanze ci viene letteralmente sbattuto in faccia nei fotogrammi di “Cocksuker Blues” che ci mostrano un Keith Richards strafatto alla fine di un concerto, nelle immagini di Lou Reed che si buca sul palco, in quelle di un imbolsito Jim Morrison ben lontano dai fasti del Re Lucertola, quanto nell’impressionante magrezza di un Ronald Charles ”Pigpen” McKernan ormai definitivamente perso nella spirale dell’acolismo.
Quando poi vulnerabilità e fragilità finiscono per divenire parte integrante della copertina di un disco allora il pensiero che dietro ad una scelta del genere ci stia il desiderio di comunicare il proprio stato d’animo si fa più che mai concreto.
David Stone Martin col suo disegno sulla cover di “All or nothing at all” riesce in maniera magistrale a descrivere graficamente l’approccio alla vita e all’arte di Billie Holiday.
Quando nel 1979, riflettendo sul suo album “Blue”, Joni Mitchell dichiarò: "Nell'album non c'è quasi una nota disonesta nella voce. In quel periodo della mia vita, non avevo difese personali. Mi sentivo come un involucro di cellophane su un pacchetto di sigarette. Mi sentivo come se non avessi assolutamente nessun segreto dal mondo e non potevo fingere nella mia vita di essere forte. O di essere felice.”, indirettamente sottolineò la coerenza del suo aspetto grafico, reso indimenticabile dall’intenso ritratto di Tim Considine.
“Abbiamo detto addio solo a parole, Sono morta un centinaio di volte Torni da lei e io torno a noi, nero nero e io torno al nero”. Lo struggimento per una storia d’amore finita (e probabilmente anche per una dipendenza dall’eroina sempre più pesante) in un brano tanto cupo quanto “catchy” e lei, Amy Winehouse, dalla copertina vi guarda, come avesse appena finito di raccontarvi di sé.
Lo stesso struggimento d’amore che nel 1974 portava Tim Buckley a cantare: ““Ti amo più di quanto mi preoccupo per me stesso…Ma da quando te ne sei andata sono un bambino perso nella tempesta con i lupi…” in un album che dal titolo e dall’immagine di copertina parla la lingua della disillusione, e non solo di quella affettiva.
Pare parlarvi delle sue tribolate vicende personali pure Graham Nash mentre, sulla copertina del suo secondo album “Wild Tales”, vi porge un enorme libro aperto sull’immagine di un albero spettrale almeno quanto il suo viso e l’atmosfera della stanza che lo ospita.
“In queste scarpe non ci sto bene”, metafora che potrebbe essere la chiave di lettura dello scatto (opera di Keith Morris)
che ci mostra uno dei più vulnerabili fra tutti gli artisti, quel Nick Drake che, nell’album seguente, si spoglierà cantando: “…ora sono più debole del blu più pallido, così debole in questo bisogno di te.” (Place to be da Pink Moon).
Piene di malinconica fragilità sono le immagini che avvolgono “Searching for the young soul rebels” dei Dexys Midnight Runners
e l’album omonimo, targato 1995, degli statunitensi Alice in Chains.
Di incredibile impatto resta l’aver portato in copertina, oltre che nei solchi del proprio lavoro, l’inesorabile avvicinarsi della fine come è accaduto negli artworks del quarto capitolo degli “American Recordings” di Johnny Cash
o, in maniera ancora più scioccante e dolente, per “Blackstar” l’ultimo intenso album di David Bowie, coraggiosi e lucidi inviti alla riflessione su quello che resta uno dei grandi tabù della nostra società.