Elena
Ritratto di una donna felice
di Andreina Di Girolamo
Può una donna ritenersi veramente libera di vivere la propria vita?
Sì, può, soprattutto se un padre e un marito hanno per lei considerazione e rispetto come persona.
È il caso di Elena Ciamarra, pittrice e pianista, quasi del tutto sconosciuta. Elena nasce a Napoli nel 1894 e attraversa quasi tutto il Novecento (morirà a Napoli nel 1981), seguendo il propriodaimon creativo e d’ispirazione. Negli anni Venti del secolo scorso si diploma in pianoforte e, cosa rarissima per quei tempi, in composizione e direzione d’orchestra. Nella casa di famiglia all’interno del castello di Torella del Sannio, paese nel cuore del Molise in cui decide di vivere gli ultimi anni della sua vita, ancora si conserva la sua bacchetta “magica”; nella stanza da musica campeggia il pianoforte, un gran coda Steinway giunto da New York, alle pareti di tutte le stanze i quadri dipinti dalle sue mani tra libri in scaffali antichi. Quando, nel 2018, mi sono recata nella Casa Museo Elena Ciamarra, sono stata letteralmente rapita dall’atmosfera che lì ancora si respira: tutto parla ancora di lei. Elena era una donna bellissima (i suoi autoritratti lo confermano), sempre alla ricerca della bellezza, non solo nell’arte. Ricerca della bellezza nelle persone che ha ritratto, per lo più contadine e contadini, fanciulle e bambini poveri di cui coglie l’umanità profonda; nei paesaggi che ha dipinto dalla torretta del castello: commoventi sono le scene dei colli circostanti, con quattro case che sembrano abbracciarsi; negli schizzi, anche in quelli delle sue mani colpiti dall’artrite. Ricerca della bellezza anche nel sonno eterno: ben sei sono i ritratti del volto del padre sul letto di morte. Ha disegnato e dipinto, fin da giovanissima, imparando da autodidatta, facendo copie di quadri dei grandi maestri del passato: il suo Ritratto di Paolo III dal Tiziano è conservato nel Museo delle Copie di New York. In casa, nella sala da pranzo con un bellissimo camino quasi sempre acceso, è appeso alla parete Il mendicante di Bruegel.
Certo, Elena è cresciuta in un ambiente colto e raffinato, sempre sostenuta dal padre Giacinto, avvocato nonché novelliere; parlava correntemente il francese e il tedesco, ha viaggiato molto: è stata a Berlino per perfezionare la sua tecnica pianistica con il Maestro Kreutzer; con i figli Leonardo e Minna ha soggiornato a Parigi, dove il gallerista Duncan, fratello della famosa danzatrice Isadora, organizzò una mostra con i suoi quadri. Con il proprio esempio ha educato i figli al senso critico, incoraggiandoli a coltivare i personali talenti, e a fare scelte, nella vita, con etica consapevole. Suo marito, Pasquale Cammarano, chirurgo, l’ha sempre sorretta nel realizzare aspirazioni e sogni. Ambiziosa? No, Elena non lo era: avrebbe potuto fare carriera come pianista, come pittrice; in realtà ciò non le interessava. Dopo la mostra a Parigi, non ha più voluto esporre, piuttosto regalava i suoi lavori; a Torella sono conservati ben cinquemila dipinti, eseguiti su tele o su cartoni o, come nel periodo della guerra, su carta da giornale. Dipingeva in modo compulsivo, non poteva farne a meno, neanche quando la cecità cominciò a rendere i suoi occhi d’inchiostro più spenti: dipingeva figure su cartoni sempre più grandi. Non poteva fare a meno neppure di esercitarsi al pianoforte tutti i giorni, anche quando l’artrosi cominciò a deformarle le mani: inventò guantini di ferro e cuoio in cui infilare le dita per avere un buon assetto e, così, un buon controllo sui tasti del suo Stanvé, come le persone umili che frequentavano casa chiamavano lo Steinway: Elena approvò il nomignolo affettuoso. Ancora oggi, quel pianoforte meraviglioso, con la scritta in oro all’interno del coperchio, viene chiamato Stanvé dagli eredi e dalle persone che frequentano la casa.
La immaginiamo fortunata. In realtà, negli scritti ancora inediti del figlio, Leonardo, filosofo, novelliere e pittore anche lui, leggiamo: «Amavo e amo mia madre per un preciso, semplice fatto: mi ha offerto di assistere allo svolgersi d’una luminosa avventura di uno spirito che cerca se stesso altrove, senza soste, senza debolezze, con passione indomabile. La parabola artistica di mia madre è stata di sublime bellezza. […] Aveva doti native. Una volontà di ferro e una straordinaria capacità di cogliere il vero, di intelligerne l’anima. Paesaggi, ritratti, nature morte, fantasie figurative, tutto ciò che è uscito dal suo fusain o dal suo pennello “parla”, emana il sapore della vita compresa, il qui e l’ora della vera intuizione. […] E tutto ciò contro notevoli difficoltà economiche e familiari, la fatica di vivere, l’incomprensione, il fariseismo ambientale della borghesia napoletana, gli sforzi in senso contrario di tutto e tutti. Ho amato, amo, e mi si stringe il cuore, questo splendido, commovente destino. Io ho visto il genio all’opera. Vedere ciò significa restarne abbagliati, e anche averne pena. Si ha pena, in fondo, di chi vive fuori di sé. Ma poco prima di morire, forse vedendomi sempre così miseramente disperato, mi afferrò con forza la mano e mi disse: “Leonardo, io sono stata felice».