Crocevia sull'acqua
Quanto nastro di pellicola si è dipanato fra terra e mare in oltre un secolo di cinema? Non c’è nave, sottomarino, piccola imbarcazione o leggendario translatico che non abbiano fatto da sfondo ad una storia se non sono stati essi stessi, talvolta, la storia da raccontare. E quante spiagge o isole hanno colmato di suggestione un racconto sullo schermo? Pensiamo al mare e davanti ci si staglia l’immagine di una vivida, straniante immensità. Libertà e solitudine, natura e incognita si sono spesso sprigionate dall’azzurro fluttuante in uno schermo. Se invece pensiamo a un porto, piccolo o grande, quanti film ci vengono in mente in cui non gli sia stata dedicata che una manciata di immagini, in cui non sia stato lo sfondo vociante e confuso di arrivi e partenze, il ristretto momento di passaggio fra una vastità e l’altra, fra la terra e l’acqua?
Ad alcuni potrebbe venire a mente Fronte del porto, il film che nel 1954 contribuì a rendere immortale la stella di Marlon Brando. Sebbene il titolo originale scelto da Elia Kazan fosse On the waterfront il porto è comprimario assoluto delle vicende dei suoi protagonisti, dallo scaricatore interpretato da Brando, alla sua ragazza, i compagni di lavoro, il prete della parrocchia vicina, il sindacato corrotto dalla mafia. Vite legate a una banchina fino alla fine (spesso tragica) di alcune.
Qui il mare non è che un insieme di scorci, rettangoli e fessure aperte fra le costruzioni del porto industriale, i volti e le mani, seppur sferzati dal vento o asciugati dal sale, sono intrisi di sporco, fumo, olio, polvere. Camion, gru, casse spostate, rombi di motore, cigolii e ferro coprono il suono di onde e gabbiani. Qui l’idea di vastità data dal mare aperto o da una landa di terra sterminata si frammenta in scorci plumbei e brulicanti di facce e voci di passaggio.
Non troppo diverso è l’orizzonte offerto dalla città portuale di Le Havre ritratta da Marcel Carné in Le Quai des brumes (Il porto delle nebbie) in cui Jean Gabin e Michèle Morgan incrociano i loro destini nel grigio andare e venire di navi da trasporto o nei passi anonimi di avventori infreddoliti. Seppur in bianco e nero il porto diventa fucina di passioni ardenti, incontrollate, si fa tempesta contro un mare avvolto da una immobile foschia. Lo stesso Marcel Carné, presidente della giuria alla 39˚ Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia avrebbe voluto premiare col Leone d’oro l’ultima opera di Reiner Werner Fassbinder, Querelle de Brest (Querelle) in cui le immagini si velano del rosso e del giallo delle vecchie Polaroid. Il porto della città francese si fa teatro umido e rarefatto del connubio fra sesso, amore e morte caro al cineasta tedesco. I grandi amori di Kazan e Carné spariscono negli anfratti di un bordello in cui i marinai mitigano con l’oppio il mal di terraferma e fumo o nebbia qui si rarefanno senza dare alcuno spazio alla luce, ma corrompendo il colore in una fluidità onirica e quasi tattile. Il porto di Fassbinder non è che un lungo, fluttuante calderone in cui i corpi si dissipano in sudore salino.
Tre film, tre esempi in cui il porto ci presenta il conto dei territori di mezzo, di quei mondi aggrovigliati e ritorti su se stessi dove le navi si muovono solo nell’attimo in cui salpano o attraccano e le costruzioni non sono case ma container. Quasi nessuno vive nel porto eppure in esso la vita scorre in una ritualità costante fatta di orari, odori e rumori propri. E come il mare non si scorge che in lontananza, ritagliato dai profili di cose ora ferme, ora in movimento, ma sempre in mezzo, il porto stesso si apre fino ai bordi di uno schermo, compagno vociante, indifferente o complice dei destini di chi vi si ferma per un’ora o molto più a lungo. Un po’ come nella vita in cui le immensità collettive si dividono immancabilmente ai crocevia individuali.