Il cibo al cinema: menù classici e sperimentali

di Fabio Canessa

Spaghetti e maccheroni sono lo stemma del cinema italiano. I primi hanno dato il nome agli spaghetti western degli anni Settanta, che hanno toccato il vertice nei capolavori di Sergio Leone e nelle scorpacciate di salsiccia e fagioli che, da “Lo chiamavano Trinità” in poi, hanno caratterizzato i film della coppia formata da Terence Hill e Bud Spencer.
I maccheroni sono i protagonisti della sequenza più celebre della filmografia di Alberto Sordi e danno il titolo a uno dei migliori film di Ettore Scola. In entrambi i casi in funzione patriottica: in “Un americano a Roma” perché l’ossessione sfegatata di Nando Mericoni per le mode provenienti da oltreoceano si ferma proprio al confronto con il piatto nostrano, in “Maccheroni” significano la riscoperta dell’Italia e della sua umanità da parte del Jack Lemmon che vi aveva fatto il soldato quarant’anni prima.

Il Neorealismo ha messo in scena il cibo come momento gioioso, si veda la pizza mangiata dal bambino in “Ladri di biciclette”, mentre, nel medesimo contesto di umile povertà, Totò ha più volte trasfigurato i morsi della fame in chiave di tragica farsa: emblematica la sequenza di “Miseria e nobiltà” in cui in piedi sul tavolo si riempie le tasche di spaghetti.

Il cibo è anche il metro sul quale si misurano la decadenza morale della società contemporanea e il vuoto nichilista del consumismo: lo dimostrano “La ricotta” di Pier Paolo Pasolini e “La grande abbuffata” di Marco Ferreri.
Nel primo la povera comparsa Stracci muore crocifisso dopo una scorpacciata, nel secondo quattro amici decidono di suicidarsi mangiando fino a scoppiare.
Scoppia letteralmente il mostruoso cliente del ristorante in “Il senso della vita” dei Monty Python, mentre finisce cucinato da un gangster (che aveva reso cornuto) il protagonista del capolavoro di Peter Greenaway Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante”.

Una chicca poco nota è “Qualcuno sta uccidendo i più grandi cuochi d’Europa”, nell’animazione svetta lo splendido “Ratatouille”, per l’allegoria ispirata niente di meglio di “Lunga vita alla signora” di Ermanno Olmi.

Agli antipodi sono invece due film imperdibili nella storia del cinema: “Il pranzo di Babette” del danese Gabriel Axel, nel quale una cuoca di talento spende tutti i suoi soldi per gratificare con un pranzo sopraffino le due anziane sorelle presso le quali presta servizio, e “Il fantasma della libertà” di Luis Bunuel, che, per minare le convenzioni della società borghese, immagina un mondo in cui mangiare è considerata azione così riprovevole che viene effettuata singolarmente chiusi nella toilette (mentre si defeca tranquillamente a tavola, ognuno seduto sul proprio water).
Nel primo caso l’arte di cucinare per gli altri diventa la massima dimostrazione di un amore puro e disinteressato: non a caso è il film preferito di papa Francesco. Il secondo mette invece la pulce nell’orecchio che mangiare sia atto talmente volgare da doverci nascondere per espletarlo.