Le stelle non vedono

di Carlo Cecchi


Le stelle ci guardano, ma sono cieche per via  del loro stesso splendore. Così è come per la pittura, che vive nel suo silenzio e nel contempo è cieca anch’essa, incantata dalle immagini a cui il pittore dà origine per via della trepidazione poetica di cui è portatore. 
La pittura rivela l’invisibile ed eclissa il riconoscibile, per questo non può essere in assoluto obbiettiva, quindi è di parte. Lei nasconde il concreto con il suo silenzio e quando le si chiede verità mente. 
 Mente nelle rappresentazioni perché Lei presenta solo se stessa anche quando può sembrare altro da sé, così come un universo che appare vicino, in realtà, smentisce la sua prossimità al mondo. Perciò anche il suo manto fatto di stelle risulta ingannevole e immaginario. Tuttavia l’arte si chiede se l’immagine  rappresentata possa mostrarsi più vera del vero e quindi la pittura, che possiede la virtù del colpo d’occhio, riesce ad attraversare il visibile della volta celeste indossando le stelle e diventando lei stessa l’invisibile cosmico. 
 

La menzogna dell’opera

di Carlo Cecchi 

 Si dice che l’arte appartiene al genere umano, ma esiste ancora il genere? Esiste ancora l’umano? Invece l’arte non appartiene, essa è, per sua stessa natura, un corpo estraneo al mondo, quindi è, in sostanza, illegittima. Portatrice di menzogna, si costituisce come la madre dell’equivoco. Così è per la pittura, che vive nel suo silenzio, essa è cieca dalla nascita, incantata dalle immagini a cui da origine il pittore per via dell’inquietudine di cui lui e solo lui è portatore sano, l’artefice di scompensi visuali e di scenari esistenziali. La pittura rivela l’invisibile ed eclissa il distinguibile, per questo non è mai oggettiva, in quanto nasconde il reale e diventa generatrice di tradimento. La pittura mente nella sua rappresentazione perché ama presentare solo se stessa disperdendo qualsiasi sintomo di verità, ovvero il suo dato vive altrove, per questo è sempre fuori luogo. La dissimulazione è il suo compito naturale, dando così origine alla vera assenza attraverso l’apparizione che è ciò che si guarda. E così avviene anche per il disegno che si realizza mettendo in gioco la relazione tra l’immagine e il suo supporto di materia. Così il disegno diviene espressione tribale presentando quello stato febbrile che l’artista esibisce con il segno essenziale ed istantaneo. Pertanto la memoria si dissolve al punto che il passato diventa più misterioso del futuro e lo stesso futuro si trasforma in un tempo inventato a consumo dell’artista. Ma la critica, che rappresenta l’unità di misura del tempo dell’arte, dovrebbe invece provvedere a governare l’apparenza dell’opera e al tempo stesso praticare anche il proprio tradimento, rinunciando così all’oggettiva lettura dell’opera. Potrebbe, forse, essere un modo per rintracciare il mondo che attraversa il corpo dell’artista e non il contrario.