La vecchietta e il sistema della salute
di Marco Giovagnoli
In tenera età (negli anni 60 del Novecento) capitava che a volte soffrissi di una indisposizione che allora chiamavano torcicollo e che ora credo avrebbe una definizione molto più ‘scientifica’; alla bisogna, dunque, le donne di casa – madre e nonna – chiamavano una vicina ai miei occhi molto anziana (abitavamo in una città non grandissima e in un condominio ‘popolare’) la quale veniva ad applicarmi un impacco fatto con erbe a me ignote (oggi direi anche camomilla, ma forse è una sovrascrittura postuma) che aveva effetti miracolosi. Il dolore passava e il ricorso alla farmacia, o addirittura al medico ‘di famiglia’, non era in quel caso contemplato. Tornano a volte in mente quei frangenti nella mia occasionale rilettura degli scritti di Ivan Illich ed anche, devo dire, nelle riflessioni su cosa sia successo negli ultimi anni nel campo della salute pubblica, sia locale che globale, con particolare riferimento allo ‘spartiacque’ della vicenda della pandemia da SARS-CoV-2, ai destini della sanità pubblica (in Italia in particolare) e alla frattura sociale tra sostenitori e oppositori delle misure straordinarie adottate in quell’occasione.
Illich non è certamente un sostenitore acritico di quelli che noi oggi consideriamo i pilastri del welfare (quel che ne è rimasto, diciamo), ad esempio per ciò che riguarda l’istruzione e, tema di questo numero, la sanità/salute. Di quest’ultimo ambito se ne occupa a più riprese, sia in maniera monografica in Nemesi medica, sia all’interno di un ragionamento più ampio nel fondamentale La Convivialità o anche in Per una storia dei bisogni. In sintesi, l’attacco al sistema medico moderno riguarda alcuni punti fermi: la mercificazione della salute funzionale al monopolio (radicale, nei termini del pensiero di Illich: si ha monopolio radicale quando un processo di produzione industriale esercita un controllo esclusivo sul soddisfacimento di un bisogno pressante, escludendo ogni possibilità di ricorrere, a tal fine, ad attività non industriali) della corporazione medica e dell’apparato industriale di contorno; l’espropriazione dei saperi individuali e comunitari nella cura e nella gestione della malattia e della morte, in favore di saperi esterni e specializzati; l’ossessione sulle cure – preventive o ex post nulla cambia – piuttosto che sui fattori determinanti non-clinici di malattia (il degrado ambientale, gli stili di vita connessi allo ‘sviluppo’, etc.: “donne incinte, bambini sani, operai, vecchi, tutti si sottopongono a periodici check-up e a esami diagnostici sempre più complessi”); la definizione stessa di salute/malattia, appaltata ai ‘professionisti’. La condizione indotta nella modernità è quella di (potenziale) malato piuttosto che di sano, quest’ultimo quasi tenuto a discolparsi della propria non inclusione nel sistema del controllo medico. Sistema che è, per Illich, iatrogenico, sia in maniera diretta (“la sofferenza, la malattia e la morte sono risultato di prestazioni mediche”) che indiretta (“le politiche sanitarie rafforzano un'organizzazione industriale che danneggia la salute”), che strutturale (“quando illusioni e comportamenti promossi dai medici restringono l'autonomia vitale della gente minandone la capacità di crescere, curarsi e invecchiare; o quando paralizza l'impegno personale stimolato dalla sofferenza, dalla menomazione, dall'angoscia”). Vi sono poi, come ‘estremi’ del ragionamento, la problematicità di una eccessiva natalità (sottraendo alla morte ‘naturale’ chi naturalmente non ce la farebbe, ad esempio) e di un accanimento nel tenere in vita, dall’altro lato dell’esistenza, una vecchiaia che rifiuta di fare i conti con la morte.
Superata una determinata soglia (la doppia soglia di mutazione ed oltre) ciò che all’inizio produce benefici – la disponibilità di tecniche semplici di cura ad esempio, o alcuni farmaci – inizia a generare disfunzionalità (è iatrogenico, appunto) e in particolar modo produce dipendenza attraverso il meccanismo del bisogno indotto e della distruzione delle potenzialità umane di autocura, di confronto e accettazione della sofferenza come esperienza di vita che vengono appaltate, per così dire, al sistema industriale della ‘produzione’ di salute, alla gestione eteronoma (istituzionale) della vita stessa.
Qua e là la feroce diffidenza rispetto al sistema sanitario industriale lascia aperti varchi inaspettati, come nel più puro stile di Illich: laddove si manifestano, i miglioramenti in salute non sono dovuti al mastodontico apporto dell’apparato sanitario, ma ad esempio all'adozione di un modo di vivere più sano, specie sotto l'aspetto dell'alimentazione, o (con una certa dose di provocazione) anche alle ferrovie e alla fabbricazione sintetica dei fertilizzanti e degli ‘insetticidi’, come a dire più disponibilità di cibo; o a strumenti sì moderni, ma conviviali, che presentano due caratteristiche ricorrenti; i mezzi materiali occorrenti hanno un costo irrisorio ed è possibile predisporli in confezioni usabili personalmente o col semplice aiuto d'un familiare. Vi rientrano ad esempio (benché in “piccola misura”), anche le vaccinazioni, alcuni rimedi semplici come gli antibiotici, i contraccettivi e “gli aspiratori Carman” (Karman, in realtà, per l’interruzione della gravidanza). Sprofessionalizzare la medicina non significa per Illich negare l’esistenza degli esperti, o rifiutare lo stanziamento di fondi pubblici per scopi di cura, la medicina moderna o la scoperta di nuovi farmaci, per tornare a riti e pratiche stregonesche; significa invece combattere le ortodossie, il dominio delle corporazioni, la espropriazione del diritto di vivere le fasi salienti della propria esistenza “quando si nasce, ci si rompe una gamba, ci si sposa, si partorisce, si diventa invalidi o si affronta la morte” in un “ambiente ospitale”.
Come in molta della sua produzione intellettuale, la lettera di Illich va messa in prospettiva. Dai suoi punti di osservazione – il sistema sanitario statunitense, ad esempio, o le comunità campesine del Sud del mondo, in particolare quelle latinoamericane – la disparità di destino tra chi ha e chi non ha, tra il privilegio e la marginalità risultano insopportabili: “il ricco sarà curato sempre più per i mali indotti dalla medicina, mentre il povero deve accontentarsi di soffrirne”, l’espropriazione delle capacità (e del diritto autonomo) di cura lascia gli ultimi alla mercé dell’industrializzazione della sanità/salute e blandisce le velleità dei più ricchi di non soffrire, di vivere più a lungo (in prospettiva, in eterno), di curarsi – inutilmente, secondo Illich – dei mali che il loro stesso stile di vita genera, chiedendo più medicalizzazione della propria esistenza. Da questo punto di vista, tuttavia, il rischio è di gettare il bambino (il diritto di vivere sani, qualsiasi cosa questo significhi) con l’acqua sporca, ossia la mercificazione della salute stessa; l’intuizione di un sistema sanitario pubblico, universalistico e finanziato da una (equa, certo) fiscalità generale ha a che fare con l’idea di uguaglianza, di distruzione delle disparità che il neoliberismo vorrebbe ‘naturali’, soprattutto, e paradossalmente, laddove la modernità ha smantellato le capacità di autocurarsi – quando possibile – e sono proprio gli ultimi a pagarne il prezzo più alto se privati dell’accesso alla cura, pur eteronoma. Qui la nemesi medica rischia di essere non la pervasività del sistema sanitario, ma il suo ritrarsi verso chi può permettersele, le cure. Certo, un po’ di quell’essere medici scalzi, ossia cittadini in possesso di nozioni basilari di cura da mettere a diposizione di tutti (Illich ne fa menzione a proposito di una breve stagione nella Cina maoista, subito terminata) occorrerebbe riconquistarlo: forse, ad esempio, l’abnorme accesso (culturalmente indotto) spesso per inezie ai Pronto Soccorso, oramai al collasso, potrebbe beneficiarne, anche senza la spasmodica ricerca di medici di base anch’essi in via di estinzione. In realtà la disponibilità attuale, anche grazie allo sviluppo di tecnologie diagnostiche semplici ad esempio di natura digitale, di strumenti che Illich definirebbe conviviali, o comunque di semplice apprendimento (lo sviluppo di tali strumenti era del tutto ancora di là da venire quando egli scrive), conforterebbe la tesi illiciana della necessità di un recupero di competenze espropriate, anche a livello di base, dalla megamacchina sanitaria.
Rivedere (al rialzo) lo status e le competenze infermieristiche, ad esempio, anche nella prospettiva comunitaria diffusa ed in particolare per aree e segmenti fragili della popolazione, probabilmente incontrerebbe il favore di Illich, così come un minore ostracismo (riscontrabile ad esempio nel dilagare di medici e programmi di medicina sui media) nei confronti di pratiche conviviali di cura riporterebbe a dimensioni accettabili lo iato tra il paziente/cliente e l’essere umano di fronte al mutare nel tempo della propria condizione psicofisica.
L’esito post-pandemico di questo confronto non è stato dei migliori, almeno nel nostro Paese: dal confronto tra l’indubbio protagonismo dell’industria medica, per dirla alla Illich, con tratti di parossismo, e la reazione antisociale dei suoi avversari, spesso venata di isteria, l’idea stessa di un sistema sanitario universale equo ed efficiente ne è uscita a pezzi, con la radicalizzazione dell’idea di privatizzazione (lo scenario che Illich ben conosceva) e dunque di esclusione e, dall’altro lato, un ottuso rancore volto all’intero sistema ed in particolare ai suoi operatori in prima linea, delegittimati nella loro generalità ben al di là del sentire illiciano. La lezione di Illich è diversa: diminuire la dipendenza, laddove possibile, è un contributo al miglioramento dello stato di salute di una collettività ed è possibile sia attraverso la riconquista diffusa di pratiche di cura, sia attraverso una ridefinizione delle priorità di vita (un po’ più complicato, certo), sia infine attraverso il riconoscimento che quello che la megamacchina della salute va a curare è evitabile ridefinendo le condizioni ambientali in cui la contemporaneità ha immerso gran parte dell’umanità e riconoscendo gli esiti tossici dell’attuale modello di sviluppo (fatto questo forse ancor più complicato).
La vecchietta curandera della mia infanzia può ancora convivere con un sistema sanitario equo, universale, pubblico ed amichevole, e meno, molto meno con la sanità per i soli ricchi o le farneticazioni social. Sarebbe un errore relegare la prima ad un mondo esoterico (evitando i ciarlatani, è ovvio) e identificare tout court il secondo con una Spectre maligna e manipolatrice: una rilettura attenta e laica del Padre Illich sarebbe utile ad entrambi i campi.
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Proposte di lettura
Illich I. (2013), La Convivialità, RED Ed. (1973)
Illich I. (2013), Nemesi medica, RED Ed. (1976)
Illich I. (2020), Per una storia dei bisogni, KKien Pub. (1978)