Le mani battute

di Stefano Lucarelli

È difficile immaginare un qualunque contesto relazionale privo di tensioni e conflitti. È difficile anche immaginarlo caratterizzato dalla presenza di una costante condivisa armonia. Per questo motivo, quando s’interiorizza il termine “Pace”, soprattutto quella “universale”, si rischia di precipitare nella retorica o in un certo conformismo, perché è una condizione personale e sociale carica di contraddizioni e difficoltà oggettive. Resta però un punto: la pace è una continua ricerca di mediazioni, di riflessioni e di analisi, senz’altro, che stravolge e sposta montagne, effettivamente, ma una volta avvertita come necessaria è raro che ci scappi di mano. Non è facile conquistarla o inseguirla, piuttosto assorbirla, attraverso un rapporto con i gesti, le considerazioni e la rinuncia tenere fermo il pensiero. Un pensiero libero, fuori dai recinti identitari e disponibile alla trasformazione critica è un passo fondamentale per costruire una pace visibile, o almeno.
 
La prima volta che ho dovuto indossare degli occhiali li ho presi tondi tondi.
No, no come John Lennon, no…e non per via della musica o di altro è che come modello avevo un altro personaggio.
Scuro, calvo, magro magrissimo e vestito di bianco.
Alcuni compagni mi prendevano in giro: era molto meglio indossare il Che.
Era vero, era molto più fico, però non è che il Che fosse miope, quindi.
Inoltre avevo una certa passione anche per altri due tipi: uno era Francesco d’Assisi e l’altro Gesù di Nazareth.
Questo li insospettì e segnò la fine di una certa militanza dell’allora estrema sinistra.
Non che a loro non piacessero, solo che rischiare di fare a botte e urlare slogan agguerriti con l’effige di S. Francesco e il Tao non è che fosse propriamente indicato, e allora.
Negli anni mi sono accorto di questo bisogno del bianco per farsi ascoltare, per non farsi battere o sparare sentenze addosso.
Del resto, nei film di guerra c’era sempre qualche coraggioso che sventolando una stoffa bianca portava in salvo qualcuno.
Così quando qualcuno andava fuori di testa usando mani o piedi, nel cortile della scuola, ero sempre io quello che diceva: “Pace! Basta! Fermi!” tirando fuori un fazzoletto.
E tutti si fermavano, tra una parolaccia e uno sputo, ma si fermavano.
Ed io rimanevo sconcertato da questo potere.
E così, ancora oggi, quando protesto o manifesto invece di grugnire e inveire batto il tamburo forte e canto a squarciagola indossando una cosa bianca.
La preparo dalla sera prima.
Stesa sulla sedia che mi poggia da comodino.
Una maglietta bianca e un pantalone pure.
Poi, il giorno dopo, il corteo è un arcobaleno triplo di colori: bandiere, striscioni, fazzoletti e salsicce rosse con birra gialla a schiuma, a seguire.
Ed io col mio bianco addosso.
Nel tempo, quel colore, m’è restato nell’anima.
Non dipende solo dai Ghandi di turno, no, c’è qualcos’altro: è l’asciugamano da ragazzino, l’accappatoio ma anche la biancheria intima.
Intimo: ecco il termine giusto.
C’è un’intimità dell’anima con la quale è necessario fare i conti, perché barare, è impossibile, dannoso, inutile.
Una traccia che nel tempo si fa solco è diventa una riga nella mano.
E resta il segno.
Battuta tra un palmo e l’altro schiocca un suono, un ritmo.
Fa sentire il proprio tempo.
Io le ho sempre battute forte: nei compleanni, nei concerti, nei comizi, a me stesso.
Nell’antica frequentazione del segno domenicale dello scambio della pace.
E quando incontro un altro palmo, segnato anch’esso, lo appiccico al mio per lasciargli un calco autentico, distinguibile: mi presento, sono io, nient’altro, è il mio nome mentre stringo il tuo.
E in quel momento diventiamo un noi: senza distinzioni, senza identità da presentare.
Ho sempre pensato alle mani come una soglia: invitante o sgradevole.
Le mani come un mezzo: buono o cattivo.
Penso allo schiaffo di mio padre: preciso, inesorabile, senza obiezioni, doloroso ma respinto nel contenimento di una lacrima.
Penso alle fettuccine di mia madre: acqua, farina, uova e sapienza, sfogliate prima della prima campana che segnava la Domenica in lunghe stelle filanti di grano da mettere in tavola.
La stessa che ci accoglieva nella pace e nel silenzio di una festa nella festa mentre si arrotolava con la forchetta al quel ragù sapido, carico di assaggi rubati durante la lenta cottura.
Penso al fornaio e al pasticcere: mani buone e abiti bianchi.
Quale forno di casa potrebbe sfornare pane e prepotenza…?
Ho sempre riconosciuto alle mani per il principio di una mossa, di un gesto: qualificante e inequivocabile.
E così oggi le ho dipinte di bianco e stese al cielo insieme con altre migliaia.
Il bianco della pace, della mia pace, anche se questo non mi discolperà del tutto…anche se queste mani finissero per congiungersi con altre che si stanno spingendo fino all’estinzione pur di difendere i propri diritti senza macchiare le proprie di qualunque rosso sangue.
Intorno a me la musica sale.
I camion colorati sono decibel in movimento.
Tutti ballano perché detestano qualunque prova di forza che non sia il farsi sollevare da terra per essere sbattuti in gattabuia.
E in quelle celle, le mie bianche mutande, durante le perquisizioni, hanno sempre fatto ridere.
Che male c’è…?
Non sono virili…?
E allora…?
Gusto meglio i maccheroni nel piatto bianco, adoro le osterie, dove servono la pastasciutta nel piatto bianco che scotta di lavastoviglie, adoro la carta bianca della tovaglia, dove si è liberi di fare disegni e poesie improvvisate.
Ecco il mio bianco: segnatemi pure, sprayzzatemi, imbrattatemi tutto, i vostri segni saranno la testimonianza della mia volontà a resistere.
I vostri segni, la mia body art, il mio tatuaggio, e se fossero brutti, meglio ancora: vostro è il copyright.