Storie di animali selvatici e di uomini
di Massimo Zamboni
La fila di impronte lungo il recinto delle pecore racconta che hanno proceduto in fila rettilinea, calcando i piedi esattamente nell’orma di chi precede. Una marcia svolta senza sbandamenti, senza digressioni, fino a disperdersi nel bosco e oltre. La neve intatta rivela che non c’è stato stazionamento, il branco non sembra essersi interessato al gregge rinchiuso nello stallino nonostante il richiamo offerto dai belati e l’odore consistente. Questo territorio offre altre opportunità di cibo: ungulati, cinghiali, lepri, fagiani, topi, carcasse. La fame non è più un assillo come poteva essere al tempo della persecuzione.
È dalla metà del secolo scorso che non eravamo obbligati a parlarne. L’ultimo esemplare era stato ucciso sull’Appennino reggiano più di settant’anni or sono, in un giorno nevoso nel gennaio del 1949: Torri e Bragazzi, gli sparatori, due montanari che parevano scolpiti nella pietra serena, avevano ricevuto un premio dalle autorità, avevano portato il cadavere in trionfo in mezzo agli applausi e le grida. Era stata festa grande in quel paese di crinale. I bambini avevano urlato nel vedere i denti canini, le donne avevano maledetto, gli uomini bevuto e bestemmiato, i muli ragliavano. Un capitolo eterno pareva chiuso per sempre e l’incubo dei pastori si stempera in un ricordo poi in un racconto e in leggenda. Poi appaiono indizi che tornano ad attestare la sua impensabile presenza: le fatte – così chiamano le feci dei selvatici, che trattengono in sé i ciuffi di pelo delle prede digerite; qualche pecora sbranata. Ma ancora si parla di cani rinselvatichiti, forse di maremmani randagi che si sono aizzati a vicenda alla razzia. Gli episodi si moltiplicano, non c’è fattoria che non sia toccata. Degli ovini ammazzati vengono mangiate quasi solamente le interiora, cosa che probabilmente nessun cane farebbe, tutto il resto rimane sparpagliato a terra nei recinti esposti senza particolari protezioni: ma il colpevole ha un nome che nessuno ancora ha voglia di pronunciare. Nemmeno quando il cane di Ca’ d’ Bartuchin, un maremmano maschio di buone dimensioni, una sera picchia disperatamente con la zampa alla porta della casa del padrone, guaendo e chiamando, cercando di entrare dove non era mai entrato prima, con la faccia di chi ha visto un fantasma. Nemmeno quando in una borgata vicina al castello sentono ululare con tanta forza che nelle case non riescono a sentire la televisione. Nemmeno quando la mattina successiva, lungo lo stradello all’uscita del paese trovano una pozza di sangue fresco e in mezzo alla pozza un femore di cane. Nemmeno allora quel nome si può pronunciare. Un allarme cresce inconfessato, ma resta una presenza sottovoce fino ai primi incidenti notturni con le auto. Allora quel nome – lupo – si deve dire. Si deve scrivere sui giornali e nei notiziari.
Spauracchio delle fiabe infantili il lupo è tornato, creando scompiglio in una terra organizzata come l’Emilia. Porta con sé la felicità della natura, che di predazione ha bisogno per esistere in salute; porta la gioia degli appassionati del suo carattere leggendario; e porta l’accanimento dei suoi avversari di sempre, che è andato nuovamente a istigare. Gli allevatori in primo luogo, che si difendono rinforzando le recinzioni, innalzandole oltre i due metri, sporgendo il filo spinato all’esterno a impedire scavalcamenti; ma non basta. Continuano gli ammazzamenti del bestiame, si parla anche di vitelli, di giovani manze che la consuetudine locale alleva all’aperto in campi circondati da un solo filo elettrico. Calano i caprioli, i daini, cinghiali, lepri e fagiani e questo indispettisce i cacciatori, che si nominano unici autorizzati al prelievo in natura. Tornano in voga i bocconi avvelenati, polpette imbottite di polvere di stricnina o conciate con liquido antigelo, indiscriminatamente mortali per tutti i carnivori, che siano selvatici e familiari. Alcuni fucili tirano per ferire, così che il bersaglio andrà a morire lontano dal luogo dello sparo, depistando i sospetti. Ogni orma rinvenuta, ogni carcassa spolpata rinfocola vecchie leggende, mentre i nuovi racconti si moltiplicano, ognuno ha il suo e si raggiungono toni da Jack London. Come quell’allevatore che esce la notte per fumarsi una sigaretta conclusiva prima del sonno e passeggiando nei pressi di casa si dirige verso un cumulo di neve fresca, non sa neanche lui perché. Nel freddo, nel silenzio, le due teste di lupo che spuntano all’improvviso da dietro al cumulo lo paralizzano e nonostante la loro fuga immediata lui, uomo fatto, cacciatore e montanaro, resta intontito e congelato, il cuore nel tumulto. O come quel vecchio, unico abitante di una borgata rimasta spopolata, capace di cacciare in solitaria pur se ultraottantenne, che arma le sue lenze da pesca con ami adatti alla cattura del tonno e le dispone a scendere dai rami dei faggi fino a un metro dal suolo, innescandole con la carne. Lì dove saltando abboccherà il lupo, divenendo cadavere dondolante, appeso senza rimedio per la bocca, la lingua penzoloni, lo sguardo di vetro. O come quel canaio che aveva dotato il suo cane da cinghiale di un radiocollare gps che gli avrebbe permesso di individuarlo anche se si fosse smarrito durante la battuta, come spesso accade agli esemplari più accaniti che perdono la testa all’odore del selvatico. Racconta quell’uomo canaio che il display del suo apparecchio ricevente dava come indicazione che il cane era fermo nel bosco, come se avesse scovato la preda, e che lui si era incamminato per cercarlo seguendo il segnale emesso e che l’aveva trovato, alla fine; ma immobile, a terra, il petto squarciato dai lupi. Come, ancora, quel contadino che aveva abituato il cane ad andare nella stalla ogni mattina a reclamare una ciotola di latte appena munto. Strano, stamattina non viene. Lo chiama, niente. Lo richiama, impreca a mezza voce, arriva alla cuccia, “dai zuccone” gli dice in dialetto, tira la catena, la catena gli scorre tra le mani fino al collare vuoto. Nessuna gentilezza nel lupo, capace di aggredire i membri addomesticati del suo stesso genere non soltanto per cibarsi ma anche in nome dell’odio per un tradimento antico. Una servitù inaccettabile. Mutuando un comportamento proprio della razza umana, il lupo si comporta da uomo con il lupo domestico.
E stermina gli alpaca a Cerredolo de’ Coppi – a scriverlo sembra di parlare degli altopiani del Cile –, le pecore a Cerreto, San Giovanni, Baiso, fino a casa nostra – nove in tutto, agnelli compresi – diventa presenza concreta, consueta, diventa branco stanziale. Lo vedono i ragazzi all’alba dalla corriera della scuola, lo vediamo dalle finestre seduti alla colazione, lo vediamo sfrecciare a una velocità sconsiderata in un campo di casa dietro un capriolo impazzito dalla paura; ed è grande, grande più di come si potrebbe immaginare, grande e di un colore neanche da lupo, un colore selvatico. In qualche modo cambiano le prospettive di chi vive le montagne, diventa un azzardo una dormita in mezzo all’erba, si insinua qualche pensiero nei fungaioli solitari, nei cercatori di tartufo, ci si chiede: e se si fermasse l’auto, la notte, d’inverno, sotto la neve? E si possono lasciare i bambini giocare nei boschi? Pensieri mai pensati in precedenza, paranoie più che realtà, poiché il lupo sa che nessuna gentilezza gli verrà riservata mai e si inabissa al solo sentire il nome dell’uomo. Così almeno si afferma, e in attesa della prima ormai inevitabile aggressione ci si vendica preventivamente. Studenti di una scuola media lo trovano crocifisso sulle punte di una cancellata nel mezzo di un antico paese di crinale. L’asprezza di quel supplizio da santo parla con un linguaggio primitivo, mescolando scongiuro fascino e orrore.
Ed è subito dopo una semicurva cieca di fondovalle che capita l’occasione per avvicinarlo. Sdraiato a terra, colpito da un’automobile, ancora composto, evito il suo cadavere per istinto più che per caso, scongiurando lo scempio. Costretto a proseguire mio malgrado, considerata l’infelicissima posizione per potersi fermare. Non potrò fare quello che più vorrei: spostarlo da lì. Ma soprattutto, toccarlo. Con ciò, facendolo mio. Come era avvenuto decenni indietro lungo la via verso il mercato turco di Skopje, Macedonia; dove, appese tra gioielli ottomani, foulard, fucili d’epoca, residui comunisti, le pelli grigie dei lupi locali addobbavano le vetrine dei bottegai reclamando il tocco di mano degli europei civilizzati.
Fino a che una sera, sul presto, lungo la medesima strada – visione che dura meno di un istante – lo intercetti mentre cerca di svaligiare un cassonetto dei rifiuti. Braccato, detestato, già inurbato mentalmente, per nulla fiero, smagrito piuttosto e disposto alla sottomissione alla civiltà del consumo, molto più comoda di una caccia in campo aperto. E ti prende come una sorta di tenerezza.