Le vacanze finalmente

Un racconto familiare

di Stefano Lucarelli 

Introduzione

Tante le cose fatte insieme. Nella memoria mia, che in quegli anni tra il 1970 e il 1980 era memoria di tutti, il periodo di maggior frequentazione dal sapore nostrano avveniva in estate. Il Natale era una casa apparecchiata per altro: trame di sacro, profano e botti di fine anno.
In estate si partiva, si andava via, si migrava verso le terre d’origine che per noi erano stagliate oltre l’Appenino per scivolare verso il Mar Adriatico.
Parenti contadini che odoravano di melone e paglia, pane bianco mollicoso e salumi stagionati, fettuccine rugose e vino; e corse con i cugini dentro scarpate interminabili con biciclette prima, e cerotti sulla ferita saldata a sputo dopo.
Giorni e giorni dentro un nuovo linguaggio, chiamato con onore dialetto, che apparteneva solo ai miei e che con gran gioia riversavano sul tavolo del pasto tra un bicchiere e una sigaretta di trinciato forte.
La famiglia, la nostra come quella dei miei amici, era fatta di cose comuni: comuni le aspirazioni, comuni le litanie sulla scuola, sull’educazione prima di tutto e sull’attenzione allo spreco.
Nato all’inizio degli anni ’60, penso di far parte dell’ultima generazione che in Italia si è abbigliata con i pantaloni, le camicie e i maglioni smessi dai fratelli più grandi.
 
 
Le vacanze finalmente
 
All’inizio era stato il treno.
Una partenza di mattina presto, senza alba a salutare, stretti in un taxi grande e ciccione, chioccia familiare chiamata multipla, quella verde e nera, ed io sdraiato di traverso tra le gambe dei miei, per non farci beccare dai vigili.
Rapidi e sicuri fino alla stazione: la grande stazione Termini di Roma, a disorientare, scura e odorosa di ferro strusciato. 
Da percorrere in fretta per non perdere il treno nonostante l’orario in anticipo. 
La lunga banchina accanto alle traversine da guardare, dove contare i miei passi insieme con quelli di mio padre davanti, prima del vagone di seconda classe, col predellino sempre troppo alto e lo scompartimento intero da occupare.
In un attimo, via le scarpe, e in allegria con il cesto delle vettovaglie sul tavolino estraibile.
Lo sguardo di mio padre, preoccupato, tornato sereno: senza nodo alla cravatta. 
Era l’ora: tra poco saremmo partiti.
Tutti e sei quanti eravamo a disegnare una famiglia in viaggio verso i parenti dall’altra parte dello stivale, da Occidente a Oriente, verso il mare.
Ma prima: sei ore di binari.
E per me i binari o erano dal finestrino o niente.
Ore e ore attaccato.
Le mani incollate al vetro a seguire la linea dello sguardo, con il panino in mano puntualmente preparato da mia madre.
A guardare il paesaggio vicino che correva e quello lontano che ci lasciava.
Fino a dove ci aspettava la coincidenza.
E qui il treno, più piccolo, più leggero, si muoveva scricchiolando, tra i sedili in legno lucido e le informazioni scritte in quattro lingue sulla piastrina metallica fissata a vite.
Il finestrino si abbassava fino in fondo e il vento frizzava ancora di più l’emozione. 
-        Babbo: ma quando arriva il mare?
-        Presto, presto, aspetta solo che il treno giri oltre la montagna laggiù..
-        Ma quanto ci mette?
-        Quanto serve.
-        Ma io voglio vedere il mare.
-        Adesso arriva, stai attento.
Appeso sulle mie spalle, il naso appoggiato sulla mia testa, lo sguardo del babbo, incantato, s’illuminava improvvisamente: il mare, lento e profondo, si stagliava all’orizzonte carico di riflessi, di sogni, di giochi.
-        Eccolo!
-        Sì, eccolo lì.
-        Che ti avevo detto?
Ma prima di arrivarci era un susseguirsi di valli, piccole alture, lontani appezzamenti pettinati dal lavoro contadino. E poi alberi, alberi di tutti i tipi: ulivi, querce, fronde di betulle, qualche cipresso e i filari: un manto di filari.
E tra questi, i rossi sul viso a ridere e i calli sulle mani a salutare.
S’attraversava l’Appennino, si saliva, e man mano che ci si avvicinava cambiavano le prospettive, le regole, la geografia.
Era bella la geografia sulla cartina di scuola.
Ancora più bella la geografia del dopo scuola, negli anni dei viaggi e dei rientri.
Ritornare ora su questa linea, però, mi sembra impossibile.
Cambiati i tempi, cambiate le abitudini.
Anche nel mio lavoro partenze e arrivi sono all’ordine del giorno.
Solo un refolo d’aria domestica tra un viaggio in metro prima e in autobus poi, ogni giorno per tutti i giorni.
Un bacio ai figli ancora dormienti sulla tazza dei cereali, uno a mia moglie sul ciglio di una porta che mescola odore nostro con quello di fuori, lungo il filo teso dei saluti e dei baci ancora caldi offerti all’amore e coperti dalla fretta, dal tempo stabilito dal badge.
Eppure, oggi, qui, su questa rotaia, la vibrazione ritorna riconoscibile sui paesaggi che scorrono dal finestrino.
Silenzio il cellulare: non voglio distrazioni, non stavolta.
Stavolta il viaggio che faccio è diverso. 
È per me.
Devo salutare quel tempo, il tempo del viaggio antico, quello col babbo in testa.
Con mamma tutto era casa.
Il babbo era il mondo di fuori, oltre le porte e le finestre.
Non era, non poteva essere un padre: severo, angustiato e succinto dentro pensieri arditi o lontani, sostenuto dalla tradizione; non poteva essere nemmeno un papà: troppo giocoso e amicoso a spegnere la luce della abatjour; no: il mio era un babbo, e i babbi sono piante radicate a terra, lasciano impronte, niente parole, poche regole, e occhi, occhi che guidano, che aprono e chiudono le argomentazioni.
E poi silenzi, lunghi ed interminabili silenzi, decifrabili e no, comprensibili e no, da rispettare più di ogni altra cosa.
La frenata più prolungata e lenta delle precedenti segnava l’arrivo all’ultima stazione: fine corsa.
L’aria di mare ci avrebbe accolti.
Ma prima bisognava che mi voltassi indietro, marcare l’addio alla casetta sulle rotaie che mi aveva accompagnato, e ringraziare del passaggio, gesto misurato sin dall’inizio.
Le porte si aprivano a tirar fuori la testa e farsi trasportare nel nuovo mondo.
A gustarmi la prelibata fragranza dell’aroma locale con quello rugginoso della ferrovia.
Il naso a dirigere tutto il resto e le orecchie dietro, a fare da cassa.
Nuova gente.
Sconosciuto linguaggio.
I miei lo chiamavano dialetto.
Lungo il perimetro del vecchio porticciolo riconosco i pescatori, vecchi quanto me, ora, e i soliti gozzetti tirati a riva.
Vedo i loro gesti frequentati d’estate dopo i tuffi.
Vedo le loro mani manovrare intorno alle reti.
Mani che sanno il mare, non quelle di mio padre: le sue sapevano la terra, quella oltre l’altura a strapiombo sull’acqua.
Nodose uguali, urgevano sul lavoro: quello delle campagne prima e del salario poi.
Mani che m’afferravano per lanciarmi in aria e riprendermi al volo.
Mani che si prestavano per ogni circostanza, ogni necessità, che conoscevano il pennello sul muro da imbiancare, la sega, il martello, le forbici e prima ancora la falce, il rastrello.
Che sapevano essere leggere, quando estraevano un dentino.
Mani che s’appoggiavano sulla testa con un sentimento di perdono.
Che ne promettevano più di quante ne davano.
Erano le sue, quelle che guardandole ora, sembrano le mie.
Negli anni, costruita la mia di famiglia, ora come allora, la parte del viaggio più euforica e carica di emozione è stata solo quella d’andata.
Il ritorno poteva essere gestito anche da altri.
Ancora oggi, se devo andare da qualche parte, voglio essere io a guidare alla partenza quando tutti si sono sistemati, a prendere il biglietto del treno che si dirige verso la meta, che porta, che arriva.
Sono io che voglio mettere il piede a terra e dire: eccoci, siamo arrivati.
Tutto il resto conta poco se non è gioia, abbracci e risa.
Il dopo, non mi intriga.
Il dopo è trasporto, è ritorno, è commuovermi per l’attimo precedente appena lasciato.
Il dopo, quello di allora, era un cavallone di sale marino che riportava indietro per saltare di nuovo nel silenzio notturno della camera in città.
Il dopo era un petalo infilato di soppiatto dalla cugina tra le pagine del libro.