Lavori in corso 

di Stefano Lucarelli

Introduzione
Negli ultimi tempi ho iniziato sempre più ad apprezzare nelle persone che incontro il desiderio di non accontentarsi, di non fermarsi nell’identità di parole e gesti determinati da un lessico regionale e familiare o di appartenenza. Con loro riesco a scorgere la porta aperta alla curiosità, all’indagine, alla ricerca di una visione che sappia metterle in condizione di riempire e nutrire la propria anima.
Ascoltarle è un piacere, sentirgli porre domande, avvertire la loro attenzione e concentrarne il vocabolario del cuore è ancora meglio.
Queste persone sanno regalare respiro e aria, tanta aria, intorno e dentro a chi le frequenta, o meglio: le abita.
La loro grazia e il loro garbo tessono una trama allargata della vicenda umana che rallegra lo spirito e che, una volta trovate, lasciano ad ogni saluto il desiderio di incontrarle ancora.
In questi tempi di acciaio e fuoco, di certezze assolutiste e di confini sempre più segnati a filo spinato, rimpiango di non avere queste persone a gestire le cose del mondo.
Ma la grazia, si dice, è un segno del cielo, o perlomeno questo credono in molti, e invece vive e si muove intorno, cercando disperatamente di farsi riconoscere.
 
 
Lavori in corso
I binari della ferrovia mi aspettano nella luce intimidita della mattina.
Dentro, i solchi sui visi tradiscono la fatica.
Si va tutti insieme, e sempre insieme, si scende al capolinea.
La banchina ci raccoglie a grappoli, comunitari, neo comunitari e no, e tutti dentro la minuta scala metropolitana, a due a due per fare prima, e perché di più non si passa.
 
Si aspetta il proprio turno con la cicca in bocca, pazienti e con lo sguardo basso, tanto ci tocca, è sicuro, nessuno ci spingerà, e quando arriva il mio, scendo giù, un passo dopo l’altro verso il tornello che è solo il primo della giornata. Gli altri sono fatti di stipendio-sussidio, di precariato, di quarte settimane da incubo, dai miei figli e a quello che a loro lascerò, di brevi domeniche e d’interminabili lunedì, di silenzi fragorosi e di parole strappate.
 
A sera mi coccolo nel grande lettone, dove si appoggiano, sgambettando sotto le coperte, anche i miei figli e con loro Elisa, mia moglie.
Dentro quel naviglio in tempesta che è diventato quel materasso, ormai, sospinto dal vento in burrasca dei pugni e dei calci fra noi maschi, lei continua a leggere, anzi: a studiare, come dice spesso.
Le piacciono le parole che trova sui libri, le piace riprodurle tra le sue, le piace provare gerghi nuovi, diversi, alcuni difficili tra i nostri amici di borgata, stagionati da tempo, dentro il suono metabolizzato del loro dialetto nativo.
Adora anche quello, e come me, ne fa un uso gonfiato a pieno petto, però, in certi momenti lo vedo, mi accorgo che la sua testa corre come un flipper alla ricerca del motivo musicale che una nuova parola gli dona sentendosela risuonare in bocca.
 
Quando rientro dall’aver trasferito a peso entrambi i due pargoli nella loro stanza stamberga colma di pedalini odorosi, mutande ingiallite e magliette sportive fin sopra l’armadio per il saluto della buona notte, lei è ancora lì.
Mi fa ascoltare qualcosa e poi, commuovendosi un po’, ripete a mente quelle poche righe, le ripete sussurrandole dentro il mio orecchio, sospirando alla fine dentro un bacio umido e caldo.
-        Avresti dovuto studiare.
-        A quei tempi non era facile, lo sai: in casa eravamo troppi e i soldi pochi.
-        E ora?
-        Ci sto provando ma faccio da me, non ho tempo per lezioni, tasse e frequentazioni.
-        Puoi seguire dei corsi on-line…
-        Mi abbracci invece di dire scemenze? Ci manca solo l’on-line, adesso. Per favore.
 
Eppure, durante il percorso in treno ne vedo tanti di compagni di viaggio e di lavoro col badge che invece che riassorbire il sonno lasciato sul cuscino, vanno in cerca di pagine da consegnare alla propria anima più stanca che distratta.
Anch’io nel mio piccolo, dentro lo zainetto, oltre alla sporta e alla frutta, conservo un librino comprato al supermercato a metà del prezzo, di quelli facili da maneggiare, da girare e rivoltare se dovessi tenerlo in una sola mano.
Non siamo diversi, eppure, lei riesce a fissare tutto, gli viene più facile ora che s’impegna, mentre io, da parte mia, perdo i pezzi dovunque, torno a ritroso per cercare le tracce, ma faccio acqua da tutte le parti. Lei no: lei riesce a trattenere tutto. Anche nell’amore.
Nei pomeriggi domenicali quando i ragazzi sono fuori col pulmino che li porta e riporta dalla partita, riusciamo a scambiarci qualche parola in più sul tavolino odoroso di caffè caldo. In quel momento preciso so che succederà, che parteciperò di un momento incantevole, quello dove il suo sguardo pattinerà come sul ghiaccio tra le scie delle cose che ha capito e che vorrà condividermi.
In quel momento preciso comincerò a bere dalla sua bocca, m’intenerirò dietro le sue simmetrie geometriche e le sue equazioni filosofali.
Nell’incessante desiderio di trasformare quell’anima posta dentro il petto in uno scrigno protetto, pronto a immolarsi per il mondo intero, e in questo progetto c’è tutta la felicità della fatica verso il suo laborioso studio.
È meraviglioso starle accanto e respirarne anche solo l’aria.
A scuola mi dicevano che conoscere le cose serviva a capire meglio le cose stesse, a non farsi trovare impreparati, a non improvvisare continuamente.
Quando esce per andare incontro ai ragazzi, mentre tagliuzzo le cipolle e inizio a preparare la cena, mi fermo, e affacciato alla finestra, cerco di guardarla.
Le rubo un dettagliato sulla sua figura.
È bella, e si porta sulle spalle la bellezza delle sue emozioni.
Un impasto trasparente.
E a quel punto, torno dentro, e sulla spianatoia spacco tre uova sulla montagnola di farina per fare il mio d’impasto, quello che darà sapore alla Domenica sul tavolo.