La borsa del medico
di Stefano Lucarelli
L'acqua di San Giovanni è uno dei più antichi rimedi che si trovino nelle comunità rurali e di campagna in genere. Nella notte del Solstizio d'Estate che porta dal 23 al 24 giugno si mettono nell'acqua, fuori di casa, dentro una ciotola, preferibilmente di vetro, diversi tipi di erbe tra cui salvia, rosmarino, iperico, artemisia, trifoglio, ginestra, sambuco e fiori di campo colti al tramonto in aree non contaminate.
La ciotola così preparata, viene lasciata tutta la notte all'aperto in modo che venga bagnata dalla rugiada, quest'acqua va poi utilizzata la mattina del 24 giugno per lavarsi viso, occhi e corpo.
Era un rimedio "medico" e "leggendario" che proteggeva i raccolti e le persone allontanando calamità naturali, malattie e attirando fortuna e prosperità.
Alcuni medici di "frontiera", appunto, cominciarono e consigliarne l'uso verificando più volte l'effetto benefico narrato.
Altri, stanno proseguendo la loro opera.
Il suo predecessore svolgeva il suo lavoro come una missione: girava e rigirava visitando tutti i suoi pazienti, da quelli in cima al paese a quelli situati nei poggi più scalcinati.
Lei usa il computer.
Lui parlava e ascoltava tutto quello che i malati avevano da dire: le lamentele, le difficoltà e solo dopo si passava ai clisteri e alle iniezioni pronte dopo la bollitura della siringa sul fuoco.
Lei ascolta i messaggi nella segreteria telefonica o sul gruppo su whatsapp che ha appositamente creato.
Lui accoglieva in ambulatorio decine e decine di persone e non se ne andava fino a che non aveva finito e nessuno aveva di che preoccuparsi.
Lei ha messo la macchinetta col numeretto che si ferma una volta raggiunta la soglia impostata precedentemente.
Lui correva a sostenere le gravidanze, accudiva le gestanti, sovrintendeva al parto e solo all’alba, dopo un corroborante caffè, tornava a casa senza negarsi un buffetto al neonato.
Lei si coordina a distanza con l’ostetrica e si rende disponibile all’ospedale lasciando il numero di cellulare.
Lui, borsa in mano, si sedeva volentieri all’osteria per farsi un bicchiere prima di tornare a casa.
Lei, al bar, ci va la mattina presto appena fatto jogging tra i sentieri e la strada comunale.
Lui aveva uno schedario necessario solo per la Cassa Mutua, perché conosceva a menadito tutti quelli che aveva trattato: pancreas e vene varicose comprese.
Lei ha meticolosamente redatto ogni scheda ed emette la ricetta attraverso la stampante, inserisce il tutto in una busta che poi imbuca nel casellario alfabetico dentro la sala d’attesa con l’orario di recapito.
Lui di ricette ne faceva poche, la maggior parte delle volte le medicine avevano un non so che di arcaico: dai fumenti per i raffreddori improvvisi alla malva per il dolore di denti.
Una mattina, però, anni dopo, lui e lei s’incontrarono per un convegno dedicato alla medicina nel ‘900 dello scorso millennio.
Lui era in pensione già da un po’ e lei aveva fatto carriera all’interno di un Centro diagnostico di rilievo situato nel capoluogo di provincia.
Nel suo intervento, lui aveva elogiato il lavoro fatto dai suoi colleghi per modernizzare le pratiche e per aver approfondito le caratteristiche delle composizioni dei farmaci sicuramente, ora, più efficaci, ma di aver disperso un sapere che veniva dalla conoscenza e dalla frequentazione con la malattia.
Lei aveva messo in evidenza la capacità di ascolto dei vecchi medici condotti, che sapevano curare prima con le mani e con il cuore e solo dopo con il prontuario.
Furono entrambi molto applauditi.
Intorno al buffet, organizzato in fondo alla sala, i due si scambiarono qualche parola.
Qualcuno dice che lui si fosse stupito di questo cambiamento nelle parole e nei gesti della giovane collega.
Quando lei, in età avanzata, chiese specificatamente di tornare a lavorare in paese, qualcuno pensò che ci fosse stato lo zampino del vecchio medico ora sepolto nell’ordinato cimitero.
Altri affermano che sul muro dietro la scrivania dell’ambulatorio, insieme al Presidente della Repubblica, c’è anche la foto dell’anziano dottore.
Sul tavolo, fa sfoggio di sé un saggio di grande successo sui medici di campagna scritto a quattro mani, le sue comprese.
Accanto, aperta e pronta all’uso, la borsa di allora, proprio quella del dottore che lei ha rispolverato.
Si dice che abbia insistito per farsi sistemare pure un calesse con tanto di cavallo, anche se questa mi sembra proprio una diceria.
Non lo è però, la notizia, che vada a trovare i pazienti quando stanno bene.
Si siede, saluta, fa domande e prende a mente gli appunti, poi corregge la dieta e prepara decotti con erbe che raccoglie sui campi.
Pare che su queste terre si trovino miracolose e santissime erbe che fanno bene a tutto. Qualcuno lo diceva, ma non veniva più ascoltato, almeno dai giovani.
Eppure, per lei, questo è il modo di assistere i suoi pazienti, ora, la ricetta arriva dopo, se arriva.
Quando passa per la via, risponde ai saluti con gesti sicuri, fiera del suo lavoro.
Aveva sperimentato su di sé la capacità di cura che nasce dalla conoscenza di se stessi.
Qualcuno raccontava che fosse stata tanti anni all’estero, in luoghi impervi e difficili, che avesse imparato a conoscere, capire ma ancor più a sentire, prima che a vedere, l’approssimarsi della malattia e il ritorno della salute.
Questa esperienza l’aveva trasformata, gli aveva permesso di trovare risorse interiori più nobili e sostituito quelle inutili.
La sua non era più una professione, ma un mestiere.
Con la laboriosità e l’attitudine al dettaglio aveva trovato la misura del suo ruolo.
Ora, nonostante l’età, va ripetendo, a chi ci parla, che il nostro benessere è frutto della capacità di essere in armonia con il mondo circostante, che ognuno di noi è collegato a un filo solo apparentemente nascosto ma ben visibile.
Per acciuffarlo, bisogna portare il cuore negli occhi, i polmoni nelle orecchie e l’empatia sul palmo della mano.