“Questa non è antropologia. Non è etnologia. Non è giornalismo. Non sono statistiche. È un modo emotivo di connettersi. È arte.”[1]
Nell’ asciutta affermazione che libera il campo da interpretazioni fuorvianti sta tutta l’essenza del lavoro di Jimmy Nelson, di origine britannica con cittadinanza olandese, bambino in Africa e Sudamerica, ragazzo in Tibet, fotoreporter nei teatri di guerra in (fra gli altri) Afghanistan, Somalia, Jugoslavia e ancora reporter in Oriente e fotografo pubblicitario. Nelson porta avanti da anni un ambizioso e raffinato progetto personale di visione dell’altro che non si impigli nelle maglie dei modi principali di raccontare gli infiniti mondi che popolano la Terra. Modi che meritano di essere ricordati perché molto hanno a che fare con il tema del vedere: nel 1978 lo scrittore Edward Said denunciava in Orientalismo, l’immagine europea dell’Oriente[2], la tendenza tutta occidentale di proiettare su una cultura diversa le suggestioni e le aspettative della propria. Qualsiasi immagine rimandasse la lente con cui indagavamo la cultura altra, questa non era che il risultato di uno o più filtri pressoché ineliminabili perché inconsci e capaci di mostrarci non l’Oriente di per sé, ma il nostro discorso su di esso, quel suffisso, -ismo, in grado di attaccarsi alla visione e all’interpretazione di quella cultura, quel popolo, quell’individuo radicati nel contesto orientale.
La precisione del Giappone, lo sfarzo della Cina, la sensualità dell’India non erano che il risultato di meccanismo di contraffazione più o meno marcata di ciò che si poneva davanti agli occhi del turista europeo come dello studioso o del fotografo. Un esempio attuale del concetto elaborato da Said può essere espresso dall’esperienza che alcuni possono avere visitando una mostra di Steve McCurry o di altri grandi fotografi degli altri mondi: negli occhi della bambina afghana, nei corpi a colori della sua India magica o in quelli piegati dal lavoro e dalla terra ostile nello Yemen o in Mongolia sta tutta la risposta estetica e poetica al desiderio di chi guarda: l’Oriente come ce lo immaginiamo, come ce lo hanno raccontato nei romanzi, come lo abbiamo costruito attraverso dipinti, diari di viaggio, supposizioni, sogni.
Possibile che negli enigmatici deserti in bianco e nero di Sebastião Salgado, nel mistero dei suoi volti mutati in maschera dal trucco rituale in Amazzonia o nella moltitudine di profili avvolti dalla polvere del deserto o dalla nebbia di vapore, fiato e fumo di una stazione la cui fermata pare sospesa fra l’altra parte del mondo e il nostro, noi che guardiamo non vediamo che...noi?
Del resto persino il padre dell’Antropologia Strutturale, Claude Levi-Strauss si raccomandava di fare la tara al più asettico degli studi etno-antropologici perché per quanto animato dalla più autentica deontologia non avrebbe mai potuto (e mai potrà) prescindere dall’occhio occidentale nella forma in cui è fatto e della forma che ci restituisce di ogni cosa. La cosa vista, non la cosa. Forse nel reportage di guerra, sia questa una rivoluzione civile in un paese vicino o remoto, piuttosto che in quello di un conflitto fra popoli diversi, è ancora possibile riconoscere l’universalità della paura, dello smarrimento o del dolore impermeabili a ogni proiezione mentale possiamo esserci fatti degli altri, come spesso si scopre perdendosi nel coraggio e nella pena della vita rubata da Robert Capa nei campi di battaglia.
Dunque in tutto questo, Jimmy Nelson, nel suo peregrinare in luoghi spesso impervi e quasi inaccessibili del globo, come si pone? Cosa ci vuole dire di quei mondi ritratti con occhio non-antropologico, non-giornalistico, non-realistico? Munito di una Gibellini GP810Ti, una macchina che non rende affatto agevole fotografare in ambienti spesso non confortevoli, ma capace di addentrare la lente in linee e sfumature di grande impatto, Nelson è in grado di fare un’operazione originale e profondamente coinvolgente: ritratti in posa, nei costumi cerimoniali e negli ambienti che solo a loro appartengono, uomini, donne e bambini ci danno il permesso di cogliere qualcosa del sentimento di profondo orgoglio di essere quello che sono, appartenere a quel luogo, quella cultura, quella storia.
Liberato dall’ossessione di un racconto realistico Nelson riesce a rendere quella narrazione quanto di più vicino al veritiero. Nessun -ismo in ciò che vediamo perché nel gioco del guardare e dell’essere guardati le carte di chi ritrae e chi è ritratto sono totalmente scoperte.
Umanity, l’ultimo lavoro esposto in questi giorni a Milano a Palazzo Reale offre la celebrazione dei legami più autentici, della verità di sentimenti come, la fierezza, la gioia, l’amore attraverso la finzione del ritratto costruito a tavolino, studiato, concordato con i suoi protaginisti.
Più la posa è dichiarata, più forte è il sentimento di comunanza emotiva che suscita in chi guarda. Una mostra straordinaria riassunta in un’immagine emblematica in cui il membro di una tribù della provincia di Hela, in Papua Nuova Guinea, osserva Nelson da dietro mentre a sua volta punta l’obiettivo verso i soggetti del suo ritratto che non fanno parte di questa inquadratura e che potremo vedere solo a foto finita.
A guardare l’uomo che guarda l’uomo siamo noi in un infinito gioco di visioni che, come dice Nelson stesso, celebrano la bellezza del legame che ci unisce nel faticoso e meraviglioso cammino di conoscenza e costruzione della nostra umanità.
[1] Da Jimmy Nelson, An Exclusive Interview, ArtMarket, International Art Magazine artmarketmag.com [2] Edward Said, Orientalism, 1978, prima traduzione in Italiano per Bollati Boringhieri, 1991