I passi degli altri
di Stefano Lucarelli
Presentazione
Nel corso degli anni per diverse ragioni mi sono spesso spostato da un luogo all’altro, ma non ho mai frequentato sentieri, percorsi e tantomeno cammini pur avendone avuto voglia, tante e tante volte. Pur avendo da sempre aderito al valore e al senso ideale della loro percorrenza.
Inoltre, negli anni dei cortili a giocare a pallone fino a quelli dei grandi prati cittadini della capitale, e delle vacanze estive, di scarpinate ne ho fatte molte.
Eppure, l’idea del viaggio come quello consapevole dell’appoggio di un piede dopo l’altro, mi ha sempre reso inquieto e attratto allo stesso tempo e tutt’ora mi troverebbe eccitato e predisposto. Ma qualcosa non mi smuove: resto fermo, almeno con le gambe.
Nel tempo saranno intervenuti gli affanni dell’età, e il desiderio di trovare “casa” e di abbandonare il senso, pur meraviglioso, della “tenda”, il massimo concetto/oggetto di mobilità e precarietà che tanto rende nobile e fantastico il girovaghesimo filosofico e mistico.
Resta però la nostalgia di andare, di andare e basta, perché, come dice un vecchio monito: “…se non si va, non si vede…”.
Lorenzo era amato da tutti: bello, scattante, longilineo e con una qualità meravigliosa nel viso di un maschio: il sorriso.
Trafficava con i trattori e i camioncini da piccolo, le vecchie bici, con le quali si sbucciava in continuazione, in seguito sostituite, dalle moto di piccola e grande cilindrata.
Quando eravamo in piazza lo si poteva vedere seduto in mezzo a noi per qualche minuto e poi via, di nuovo, per andare non si sapeva bene dove, col suo vespino 50.
Aveva fatto lo scout, ma era durata poco anche quella esperienza.
È che assorbiva tutto con un appetito famelico e con altrettanta fame avvertiva il bisogno di andare altrove.
Quando ci presentò la sua prima ragazza, Valeria, ci sembrò normale immaginare che fosse attiva almeno quanto lui, e le sue scarpine da ginnastica, allora meno necessarie di adesso, stavano a testimoniarlo.
Invece, dai balconi dei palazzi intorno, cominciammo a vederlo trottare spesso in casa e a trafficare con cose ed oggetti di ogni genere, con lei appresso.
Un giorno, a casa sua, rimanemmo allibiti: aveva iniziato a fare un puzzle gigantesco, quello con i pezzi piccoli e tutti uguali, sopra una tavola preparata alla bisogna passandoci delle ore con la sua Valeria.
Successivamente, durante una partita alla tv, trovammo sulla sua tavola una macchina da scrivere, anzi “la” macchina da scrivere per eccellenza, come la definiva lui: una Olivetti 22.
- È ideale per scrivere in viaggio.
I pezzi sono facili da reperire e poi è leggera, leggerissima.
- Perché: partite?
- Non si sa mai, vedremo…
Crescendo, mentre noi eravamo tutti stabilmente legati ad un lavoro da cartellino prima e da badge poi, Lorenzo era ancora in cerca di una sistemazione, e mentre noi ci eravamo più o meno accasati, Lorenzo con ancora la sua prima ragazza non aveva messo dei documenti a timbro sul portone del Comune a sugello della sua storia d’amore.
Iniziò a scrivere per alcune riviste e potemmo orgogliosamente definirlo uno scrittore la volta in cui una nota casa editrice finì col pubblicarlo.
Presenziata la serata di firma copie del suo libro di racconti, alzato il calice a saluto e la festa successiva a fare notte, Lorenzo sparì del tutto.
Anche Valeria sembrava non saperne nulla, tranne una lettera in cui le comunicava che sarebbe partito per un viaggio e di capire, di capire e basta.
Cercammo di contattarlo, ma niente.
Anche nelle riviste la sua firma era scomparsa e la sua casa editrice l’aveva dato per disperso.
Dovemmo ammettere che aveva intrapreso il suo viaggio definitivo, quello che lo avrebbe portato lontano, sempre più lontano, in viaggi sempre più incredibili e sensoriali che mai.
Intanto, per noialtri, le stagioni passavano e la vita s’era riempita più di vacanze estive che di viaggi.
Qualche anno dopo, all’interno di una vecchia libreria in città, famosa per i libri usati, scolastici e no, girovagando tra le varie sezioni e il piccolo bar zeppo di buone cose, mi sembrò di scorgerlo.
Mi avvicinai e gli bussai la spalla.
- Lorenzo, ma sei tu?
- Ehilà, certo, e tu: tu come stai?
- Da quando sei tornato? Perché non ti sei fatto vedere? Dai: prendiamoci un caffè, così mi racconti.
- Sì, ma non qui, non ora, ti porto in un altro posto.
Indossando il casco, salii sulla sua moto e ci inoltrammo tra le vie periferiche della città per raggiungere una specie di osteria all’interno di una vecchia cascina agricola.
Qui, dove sembrava essere di casa, mi presentò a tutti e ordinò due bianchi freschi da sparigliare all’ombra di una veranda di malvasia puntinata già matura.
- Allora che mi dici? Sono anni che non ci vediamo?
- Beh, a dire il vero, sei tu ad essere sparito…
- È vero, hai ragione, anzi: avete tutti ragione.
Nel breve tempo del primo sorso di vino, condito da una grossa smorfia di soddisfazione, oltre che di buon pane bruscato e acciughe, Lorenzo mi aggiornò in breve la sua biografia ultima.
Poche cose, in realtà.
Una nuova casa da abitare tutta per sé, l’ultimo viaggio andato male in Sud America a fare un giro in moto, tipo diari della motocicletta con trent’anni in più, e scampoli di lavoro saltuario per sostenere le sue magre economie.
Dopo il secondo sorso provò a chiedermi qualcosa, ma immediatamente riprese il filo della sua storia.
La vera mossa verso una vita di movimento c’era stata, l’occasione pure e tutto il resto, anche.
Il punto era un altro, più ingarbugliato nella forma ma molto, molto chiaro nella sostanza.
Ogni volta che partiva sembrava gli pesasse più quello che lasciava che quello che andava cercando. La nostalgia prendeva spazio più della curiosità e della scoperta.
E così i suoi spostamenti s’erano fatti più brevi, meno aerei, poche navi e motori.
Giunse alla conclusione che dovesse spostarsi a piedi.
I piedi e l’antica Olivetti 22 che utilizzava sedendosi a terra a scrivere.
Il pc portatile o il cellulare avrebbero avuto sempre bisogno di ricariche e corrente elettrica, e dove si trovava a stare, a volte, tutto questo non era a portata di mano, ecco.
Aveva passato un periodo felice, sereno, con un respiro così lungo da sorprendere lui stesso.
Andava alla ricerca di luoghi che avessero un’anima, però…
- Però, che cosa è successo?
- È successo che finivo coinvolto in situazioni poco chiare e che ho dovuto imparare a mie spese a riconoscere le differenze, imparare a distinguere…
- A che ti riferisci?
- Sai, ci sono gruppi, anche numerosi, che dietro le loro pratiche, celano interessi diversi, diversamente orientati. Non hanno nulla della ricerca seria, attenta, sono fuffa, ben fatta, però, impostata con una governance mirata, con un progetto ben impacchettato, non so se mi spiego…
- Un po’, ma non riesco a seguirti.
- Hai del tempo per me, nei prossimi giorni?
- Mi organizzo: sento casa e ci troviamo.
Lo sentivo preoccupato e bisognoso di condividere oltre le pagine di un diario che stava tenendo su tutta la faccenda.
E così iniziai il mio viaggio verso queste lande conosciute fatte di persone “illuminate” e che mostravano la loro luce con parsimonia e oculatezza soprattutto riguardo i loro introiti.
Posti pieni di charme e glamour patinato che non avevano nulla dell’antico splendore del vecchio podere. Posti dove il cibo giungeva a tavola scopiazzando malamente geografie lontane. Posti dove finanche il silenzio sembrava esprimersi a comando e dietro evoluzioni, manifestazioni e posture fisiche che nulla avevano a che fare con la sapienza di gesti assimilati, frequentati e originari.
Sembrava tutto finto, effettivamente.
Sembravano delle SPA con inversioni di mercato.
Rimasi fermo per un po’.
Anche se Lorenzo, dopo questo giro turistico dentro isole che non ci sono, sembrava più sereno e piacevolmente avvicinabile.
Mi raccontò che a quel punto solo la scrittura lo aveva salvato dal perdersi completamente.
Che solo il rigore della riga sul foglio e le continue correzioni manuali, lo avessero indotto a stare più attento, più preciso e puntuale soprattutto.
E si era messo a girare vendendo sui margini della strada i suoi racconti immediati: invece che caricature, acquarelli e scorci di città e valli, lui realizzava racconti rivolti alle persone che lo avvicinavano e dopo averli scrutati ben bene, paf!, il testo veniva arrotolato dentro un nastrino e consegnato agli avventori. Alcuni di loro erano stupiti dall’aderenza alla loro vita reale.
Altri leggermente spaventati, ma poi ridevano…
- È che bisogna imparare a sentire, prima ancora che vedere, imparare a stare sul pezzo, sentire il momento giusto.
- Bisogna fare esperienza, evidentemente.
- Sai cosa, in tutto questo girare e andare, ho capito che l’amore e l’anima possono resistere solo con la puntualità…
L’osservai senza dire niente e mi sembrò che il suo sguardo fosse cambiato, me lo ricordavo più scuro, sfuggente, ora appariva più chiaro e fermo, realmente “luminoso”.
Ci salutammo e tornai sui miei passi con l’ autobus.
Ma ora, io, che vivo in un territorio rurale, marginale alle carte geografiche, torno spesso alle sue parole, e mi accorgo che il respiro di un luogo, per essere tale, può essere acciuffato solo col mantice del nostro petto, lì dove si apre e si chiude, continuamente, e dove non lontano dal cuore e dai polmoni, alcuni anziani dicono, sottovoce, risieda la parte più segreta e nobile della nostra anima.
Per questo camminano tanto, avanti e indietro, per le strade esterne al paese, fra di loro, parlano e respirano, respirano e riparlano.
Chissà, forse è proprio per via del fatto che questo respirare e camminare tra gli alberi che seguono le stagioni, gli ossigeni il cervello.
Così, quando li saluto, oltre tutto, mi sembrano sempre ben disposti.
Il loro sorriso, un fiato d’armonia a regalo.