Femmine folli
di Elena Pecchia
In principio fu Medea. Si era data un gran daffare per aiutare il suo amato Giasone a recuperare il vello d’oro, capace di guarire le ferite e custodito da un terribile drago. Si era spinta perfino a fare a pezzettini suo fratello in modo da sviare suo padre dalle tracce dell’eroe; poi, arrivata a Corinto, con un copione vecchio già allora, Giasone le aveva preferito una donna più giovane, la tenera Glauce. Medea prepara un ferale dono di nozze alla futura moglie e al futuro suocero regalando delle vesti intrise di veleno. Loro muoiono fra atroci dolori e lei si volge ai figli suoi e di Giasone immolando anche loro. Medea era una straniera, della Colchide, una barbara, una strega, infatti se ne va dopo la mattanza su un carro verso il Sole, suo nonno.
E ancora Clitemnestra, che sembra accogliere a braccia aperte Agamennone e la sua amante Cassandra dopo un’assenza decennale. Pochi versi, nella tragedia eschilea, e la vediamo sulla scena brandire un coltello insanguinato, ebbra del sangue del fedifrago e pronta a prendere il regno con il suo amante. Altro che fine del patriarcato, una donna - che ha tenuto il potere per anni al posto di un marito infanticida, che le porta un’amante in casa e vorrebbe ritornare a comandare – non esita a fare a pezzi il marito colpevole nel palazzo di famiglia, accasandosi con l’amante.
Qualche secolo più tardi, troviamo Fedra nell’omonima opera di Seneca, ma già euripidea, che, “innamorata pazza” del figliastro, si suicida disperata, accusando falsamente il giovane Ippolito di stupro e causandone la condanna a morte da parte del padre.
Nella cultura classica, greca e romana, alle donne non era concesso niente se non di stare vicine al focolare, ai figli e alla famiglia, anche se nel periodo imperiale le donne della famiglia augustea e poi le famigerate Poppea e Agrippina, allontanandosi dai prisci mores si dedicarono a orge e rapporti proibiti, castigati però duramente dalla società e dalla storia. Per il resto le matrone e fanciulle in fiore di buona famiglia erano accomunate da un’esistenza umbratile e sotto traccia: chi si ribellava veniva estromessa, esclusa, considerata folle, come il mito registra in modo esemplare nelle sue storie.
Storie del passato? Nell’Italia del Ventennio finirono in manicomio centinaia di donne, secondo quanto ricostruisce Annacarla Valeriano in un saggio intitolato Malacarne Donne e manicomio nell’Italia fascista, in base a referti che le giudicavano “stravaganti, indocili, impulsive, piacenti”. Le accuse sembrano incredibili: una giovane moglie si rifiutava di fare la cena al marito, un’altra non obbediva alla suocera convivente, un’altra ancora non andava d’accordo con i vicini… e la sintomatologia di questa loro presunta follia, che le faceva rinchiudere per sempre in manicomi lager, era tragica e ridicola. Loquaci, erotiche, capricciose, piacenti, smorfiose, dedite all’ozio, rosse in viso, ciarliere, perciò pazze. Quando gli psichiatri nel secondo dopoguerra entrarono nei manicomi femminili si trovarono di fronte a queste disgraziate, ormai difficilmente recuperabili. Impossibile risvegliare le loro menti, si provò solo a restituire un po’ di dignità e umanità a queste altre vittime della follia fascista.
Non avevano avuto dalla loro parte nessun dio Sole che su un carro volante le avesse fatte volare via.