Con i semi tra le mani

di Stefano Lucarelli

Esco volentieri la mattina presto: l’aria pizzica il viso e scioglie i pensieri.
Il mio corpo impietrito dall’età si è infustito, e solo per questo riesco a spingerlo fin sopra l’altura, oltre il sentiero segnato dalle tracce del pascolo.
Da sopra, posso osservare il paesaggio steso a lenzuolo, fino al mare. Sotto, nei campi liberati alle mani dopo anni di abbandono, ci sono dei giovani contadini.
Sono arrivati qualche tempo fa.
In paese ci si chiedeva chi fossero questi forestieri.
Alcuni avevano mugugnato pensieri in avaria, arrugginiti dai bicchieri di troppo e dall’ingresso in quell’età che nobilita il rancore, altri sembravano più indifferenti che curiosi; sicuri che spettasse a loro farsi vedere, semmai. Io da parte mia, ero incredulo.
Che venivano a fare, fino a qui, intorno a questo sperone di roccia tenuto insieme dalle radici degli ulivi e dall’emigrazione?
Insegnante di professione, collocato a riposo, continuo ad essere poco incline a giudicare e a pontificare senza un minimo di indagine.
Decisi che avrei verificato di persona.
Quando li vidi, attorno al rudere del povero Michele, mi convinsi che stessero mettendo tutto in ordine per lavorarci sopra.
Una sera, per giunta, li vidi ballare intorno al fuoco, belli e liberi come nessuno mai.
E così, ogni tanto, salgo a vedere, e volentieri mi trattengo a condividere calli e assaggi.
Li guardo, stupito da tanta determinazione.
In questo periodo cavano terra e infilano semenze.
Semi antichi, vecchi, messi da parte dopo la guerra dai nostri padri che avevano fame, troppa per quei minimi steli.
Dentro un bicchiere offerto a scambio di parole, mi spiegano che questi semi, custoditi nel tempo, passati di mano in mano come un tesoro, vanno protetti e fatti riprodurre.
Lo sguardo del giovane ragazzo, ornato dal sorriso a denti pieni dentro la barba rossiccia, mi piace, è un sorriso sincero: dà conforto.
Saluto, per non disturbare oltre, ma lui mi chiede di rimanere. Mi guardo intorno e vedo arrivare altri ragazzi, indossano capelli scapigliati e abiti conciati, portano attrezzi trovati in giro, dentro fondi non più usati, cantine ammuffite e grotte che hanno smesso di odorare di cacio e vino.
Si piazzano al centro del campo, si siedono e parlano tra loro.
Devono mettere i pensieri in cerchio.
Anche le loro parole sembrano cavate dal profondo, senza fraintendimenti.
Usano termini adatti alla bisogna, indagano il giusto.
Per un vecchio come me, partecipare di tanta melodica coesione, sembra impossibile, di più: un segno più che un sogno.
Dalla pace che ne viene fuori mi accorgo che tanta umana serenità non può che essere frutto di anni e anni di pratica, credo.
Il ragazzo uomo dalla barba rossiccia s’avvicina e m’invita ancora in mezzo.
-        Ma no, non dovete disturbarvi.
-        Ma quale disturbo, figuratevi.
Una giovane ragazza dai capelli rotolati dentro una stoffa colorata mi domanda.
Chiede di capire.
-        Qui, non c’era più nessuno, erano tutti partiti, emigrati altrove. Si faceva la fame.
Ma le mie argomentazioni s’infrangono dentro la sua delicata ostinazione a proseguire.
-        Ma questa terra? Che fine avrebbe fatto?
Mi accorgevo della sproporzionata differenza tra la mia storia e quella che emergeva da quegli sguardi attenti.
Qualunque ragione diventava una giustificazione che faceva stridere i vetri, sbrillare gli occhi, precipitare in una storia da sussidiario di secondaria inferiore.
Ma loro, pacati e sicuri, continuavano ad ascoltare, annotare, tenere bene a mente.
Io portavo una testimonianza, loro, un'altra verità possibile.
Poi il cerchio si sciolse e sotto l’ulivo più grande vennero aperte ceste e bottiglie, così che quando rincasai non ero proprio in me, ecco.
-        Dove sei stato tutto questo tempo?
Mi ammoniva la bella foto sulla credenza della Lina che per tanti anni aveva appoggiato la sua testa sulla spalla prima di darmi la buonanotte per sempre.
-        Ancora dai quei scimuniti?
-        Non sono scimuniti, sono ben convinti, invece.
-        Ah sì? E secondo te, tornare ad usare vanga, piccone e vacche ti sembra una cosa intelligente?
-        Lina, Lina mia, a volte la storia ha bisogno di tornare indietro per non ripetere gli errori precedenti.
-        Sarà: ma io non li vedo bene, ecco.
-        Vedrai che una sera di queste ti porto a ballare da loro.
-        Ecco, lo vedi: ti stai scimunendo pure tu…
Sorrisi, diedi un colpetto di gomito al vetro dentro la cornice, e la misi a posto non senza aver prima appoggiato le labbra per un docile bacio.
Diedi una rimescolata alla brace della cucina economica e salì di sopra.
Il sonno arrivò prima ancora di chiudere gli occhi.
Al mattino, mentre stavo mettendo il caffè a bollire, bussarono alla porta.
Quando aprii trovai di fronte a me il ragazzo con la barba e la ragazza coi capelli legati, stavolta con un elastico.
Li feci entrare e volentieri condivisi il caffè nelle tazzine del servizio buono.
Mi chiedono di una casa tutta per loro.
Torno a memoria su portoni in alcune vie inerpicate dentro il paese e prometto di fargli sapere qualcosa.
Prima di andarsene mi lasciano sul tavolo un sacchetto. Ci sono semi da far germogliare nei vasi. Li stringo forte tra le mani. Anche se piccoli, riesco a sentire tutto il loro peso. Riesco a sentire le mani del babbo e quelle del nonno prima di lui. Le mie sono meno ruvide, hanno fatto un'altra vita, ma non sono meno cariche di storie e storia, soprattutto, quella descritta sulle pagine dei libri che ho spiegato per centinaia di ore nel corso degli anni.
Sono belli e chiari questi semi.
Li farò germogliare, state sicuri.
Lo dico a me stesso ma anche a loro mentre se ne vanno lungo la via.
Il braccio di lui torna a fasciare la vita di lei e il saluto congeda l’incontro.
Richiudo il portone e sorrido all’idea della casa.
Adesso che verranno a stare tra noi chissà cosa ne penseranno i paesani.
Io, poi, una casa per loro ce l’avrei pure.
-        Non è vero, Lina?
Sola e senza fratelli, l’aveva lasciata anni prima per sposare me, e una volta mancati i genitori nessuno ebbe a richiederla.
La porta s’aprì senza sforzo, le stanze di sotto, piccole ma assolate, rivolte verso la valle, coloravano le pareti; quelle di sopra, accoglievano le ore notturne della fatica.
Il camino tornerà a scaldare, e i pavimenti si lucideranno sullo struscio dei piedi.
-        Bisognerebbe dargli una rinfrescata, ma è sana, e senza umidità.
La mattina sono davanti ai due ragazzi a riferire.
Mi guardano e sorridono insieme a me. S’infilano le scarpe senza calze e in un attimo sono pronti.
Tutti insieme vogliono venire a vedere, nessuno vuole perdersi la primizia di una finestra tornata a riaprirsi all’aria.
Saliamo in fila, uno dietro l’altro nello stretto viottolo, un corteo nuziale prima del velo e dell’anello.
Una volta dentro, le voci s’attenuano, lo sguardo torna concentrato, la mani vanno a toccare, sentire, bussare sui muri e sul tavolo.
Qualcuno è sceso giù nel fondo: capiente e con ancora buona legna da ardere nelle serate fredde dell’inverno stagionato.
Vedono ceste di corda, utensili da cucina e bastoni legati da trebbiatura.
Salgono felici della scoperta: tesoro da pirati fuori coperta.
-        Allora: vi piace?
-        E’ perfetta…
Lo sguardo del ragazzo uomo si fa tenero e non trattiene lo schiocco di un bacio.
Tra applausi e risa, tutti escono fuori, manca solo riso.
Loro, però, restano dentro.
Vogliono concludere.
-        Andiamo da me: si sta più caldi.
E così il corteo riprende a muoversi e pochi metri più giù si arriva al mio civico.
Qui, i due ragazzi, spostano una sedia e si accomodano.
Nella mente chiedo a Lina se ha qualcosa da dire sulla questione.
-        E che devo dire: fai sempre tutto di testa tua, ma almeno tornerà a stare calda e accogliente.
-        E sì, riprenderà a vivere.
La mattina dopo, alveare al lavoro, li vedo trafficare intorno alla casa.
Aprono, spostano, puliscono e dipingono muri.
M’infilo un pantalone sulla canottiera e, boccione in mano, scendo a salutare chi ha voluto fare di questo presepe di mura immobili, un paese ancora affacciato alla vita.
La loro scanzonata allegria, uno scorcio di tempo riempito di colori, dentro questa mia età segnata a corteccia.
Al tramonto, con la cazzuola e i pennelli a riposo, qualcuno sale, sta venendo da me.
Le dita delle mani chiuse a nocchie battono a cortesia anche se la porta è aperta.
-        Che vi serve?
-        Abbiamo trovato queste.
Stucco gli occhi: sono buste in una calligrafia cucita a mano, tenute insieme da uno spago.
Ringrazio e saluto col solo gesto del braccio alzato.
-        Sono lettere?
-        Le tue, Lina: quelle che mi scrivevi senza spedire, ricordi?
-        L’hai trovate, finalmente, ora non starai più a sfinirmi per leggerle.
Senza chiudere la porta mi approvvigiono di un coltello.
Apro lo scrigno aperto a giorno e senza chiave, solo un piccolo nodo a tenere, e lascio le lettere riversarsi sul tavolo. Non sono poche. Eppure, la Lina, non amava la penna.
Preferiva le parole.
Prendo a caso, apro e leggo.
-        Caro Michele, ti scrivo da questa casa sempre più fredda, segnata dalla malattia e dalla preghiera. Quando ritornerai portami un po’ di sole.
Non riesco a proseguire.
Ricordo la sua passione nel rimanere sola, chiusa tra le pietre di casa.
In questi giorni, però, troppe novità.
Mi manca il fiato.
Nonostante tutto, non mi sembra un caso che proprio ora tornino alla luce queste righe.
Appoggio la fronte sul palmo della mano.
Mi calmo.
Sposto lo sguardo e verso la finestra aperta scorgo di nuovo quei ragazzi.
-        Non ti preoccupare, Lina, il Sole è arrivato dentro la tua casa. Non se ne andrà più.
 
 
Il racconto ha partecipato al Concorso Letterario Nazionale indetto dall’Ass.ne Amici di Calenzano presso la Biblioteca Comunale di Calenzano (Firenze) classificandosi al 2° posto. E’ stato inserito nella stampa dell’Antologia del Premio che si può richiedere presso l’Associazione.