Abitare...una vita
di Enrico Mariani
L’abitare sembra essere ovunque e da nessuna parte. Ambito fondamentale della vita quotidiana, proprio per questo attività ordinaria, irriflessa, inconsapevole. Per quanto le scienze sociali se ne siano sempre occupate, anche senza volerlo, l’abitare resta un oggetto enigmatico, il cui significato sembra continuamente sfuggire di mano. Sulla carta ne conosciamo bene gli effetti, a cui si riferisce il significato etimologico del latino habitare. Cioè, sappiamo che abitare significa stabilire una relazione di continuità con uno spazio che è sia disponibile, sia adeguato, ad organizzare il soddisfacimento di diverse esigenze, cosiddette primarie, per un dato periodo di tempo. È da questo punto di vista che si rende comprensibile come il razionalismo modernista, a cui si deve la pianificazione di gran parte delle città contemporanee, abbia potuto ridurre il significato di abitare in senso oggettuale, schiacciandolo sull’abitazione e sui suoi valori d’uso.
La storia dell’architettura si fonda proprio sulla necessità di isolare un dentro protetto e utile, da un fuori pericoloso e caotico. Da questo punto di vista i significati primari (riparo, rifugio, economicità, cura) sarebbero distinti, e gerarchicamente più rilevanti, rispetto ai significati simbolici e affettivi connessi all’abitare: l’urgenza dei primi è condizione imprescindibile della riproduzione sociale, mentre i secondi sarebbero tutt’al più derivati e accessori. Per tentare di andare oltre questo dualismo potremmo anzitutto osservare che l’ampio campo semantico aperto dal verbo abitare si fonda sulla temporalità, sottintendendo diverse fasi di una pratica che non può essere intesa se non processualmente. Attraverso il linguaggio comune, quando si dice che qualcuno abita da qualche parte, si coglie l’idea di una pratica che viene descritta in itinere, nel suo farsi, e che continuerà a definire stabilmente l’identità di una persona in quanto abitante: di una certa via, di un certo quartiere, zona, città, provincia.
Quando l’abitare insiste in forma prolungata, fino ad arrivare a connotare un tale spazio, quest’ultimo si caratterizza in senso inequivocabile e, come vuole il participio passato, è abitato. Quando attraversiamo un sito archeologico o le macerie di un’area abbandonata in seguito al disastro, riconosciamo quella stanza con dentro i suoi abitanti e le loro abitudini quotidiane. La storia dell’abitato è quella della «polvere agli angoli» (Meschiari 2018), popolata di fantasmi, presenze-assenze famigliari, che ci inquietano e attraggono al tempo stesso, mentre riconosciamo di appartenere noi a loro, quanto loro a noi.
Quando nel linguaggio comune si dice che un certo qualcosa è cucito addosso a una certa persona, oppure quando nelle scienze naturali o mediche si dice che si osserva un certo comportamento o una certa tendenza ricorrente, si sottende tra l’altro l’accezione della parola abito, intesa stavolta come sostantivo, che più è in grado di rivelare come la matrice etimologica di habitare sia legata a una continuità strutturale, una sorta di archetipo fondativo dell’esperienza umana. Ciò implica un allargamento del campo problematico dell’abitare, suggerito ad esempio dal concetto di habitus. Grazie alla sua capacità di esprimere la dinamicità della mediazione tra gli aspetti al tempo stesso tanto contingenti, liberi e improvvisati degli attori sociali, quanto la loro inerzia rispetto a strutture normative e prescrittive, che vengono continuamente riscritte nelle pratiche e re-incorporati, l’habitus è divenuto uno dei principali strumenti nella cassetta degli attrezzi degli scienziati sociali (Bourdieu 2005). Parafrasando un altro autore molto influente, Michel De Certeau, l’abitabilità ha molto a che fare con l’arte del «bracconaggio» (De Certeau 1980, p. 17), ovvero con la messa in atto di tattiche localizzate, frutto di intelligenza e capacità contingenti, che si inseriscono negli interstizi di ciò che è prescritto dalle strategie. Ad esempio, i pedoni inventano forme originali di attraversare gli spazi, di fatto producendo una urbanistica originale e alternativa, che si esplica attraverso enunciazioni podistiche, a dispetto del potere che con il suo sguardo dall’alto si credeva onniscente. Le pratiche quotidiane introducono possibilità di persistenza e sussistenza autonome, spazi di bricolage che rimettono insieme i «resti del mondo» (De Certeau 1980, p. 163) e li fanno significare in modi nuovi e imprevisti: «L’ordine imperante funge così da supporto a innumerevoli produzioni, fra la cecità dei detentori del potere ai quali sfugge questa creatività» (Ivi, p. 19). Abitabile significa dunque certamente discontinuo rispetto all’esterno, intimo e sicuro. Tuttavia, abitabile indica una discontinuità che è articolazione originale dell’incessante scambio con i contesti socio-ecologici. Più che prolungamento o riflesso del fuori, abitare è innestare un filtro che imprime ad un interno le nostre visioni, i nostri materiali, i nostri ritmi (Barthes 2002), la nostra fisicità e sensorialità: suoni, odori e colori.
La casa non è un semplice involucro materiale-geometrico, quanto piuttosto un micro-cosmo generato dal rapporto dell’uomo con la fisicità del mondo: Tim Ingold parla al proposito di dwelling perspective per indicare come, per comprendere le pratiche altrui, gli etnografi debbano abitarle a loro volta. La sfida dell’etnografia dell’abitare consiste nel non separare la conoscenza dalla pratica, i corpi, le loro esigenze e tecniche dalle proprietà degli ambienti in cui questi si trovano, e dunque tentare di comprendere l’abitare come know-how incorporato, «notoriamente refrattario alla codificazione in termini di regole e rappresentazioni» (Ingold 2001, p. 71). L’abitare si configura allora, più che come un ambito di ricerca, come oggetto di composizione dinamica e culturalmente variabile: una pratica localizzata e specifica, ma anche una configurazione culturale immanente all’esperienza umana. Parafrasando Deleuze: che cos’è l’immanenza? “L’immanenza è una vita… impersonale, e tuttavia singolare, che esprime un puro evento affrancato dagli accidenti della vita esteriore e interiore” (Deleuze 2010, p. 10, corsivo nel testo). Che cos’hai fatto per tutta la vita? Ho abitato.
Riferimenti
Barthes R., (2002), Comment vivre ensemble. Simulations romanesques de quelques espaces quotidiens. Notes de cours et de séminaires au Collège de France, 1976-1977, trascrizione disponibile su http://tinyurl.com/3h5n6z7d
Bourdieu P. (2005), Il senso pratico, Roma: Armando.
De Certeau M. (2001), L’invenzione del quotidiano, Roma: Edizioni Lavoro.
Deleuze G. (2010), Immanenza, Milano-Udine: Mimesis.
Ingold T. (2001), Ecologia della cultura, Roma: Meltemi.
Meschiari M. (2018), Disabitare, Milano: Meltemi.