L’affondamento dell’‘Andrea Sgarallino’

di Gianpiero Vaccaro

Spezzato in due tronconi, lo scafo del piroscafo “Andrea Sgarallino” giace oggi a quasi settanta metri di profondità nelle acque dell’Isola d’Elba, poco al largo di Portoferraio.

Costruito dai Cantieri Navali Orlando S.A. per la Società Anonima Navigazione Toscana di Livorno, di cui la famiglia Orlando manteneva il controllo, il piroscafo fu varato nel 1928 ed entrò in servizio nel 1930, destinato al servizio passeggeri e postale tra le isole dell'arcipelago toscano e il continente, sulla linea A1. Era lungo 56,29 metri e largo 8,60 e disponeva di due ponti, due saloni e 7 cabine. Portava il nome del patriota livornese Andrea Sgarallino, che prese parte alla difesa di Livorno nel 1849 ed all'impresa dei Mille.
 
Il 16 maggio 1940, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, la nave fu requisita ed iscritta nel Ruolo del Naviglio Ausiliario dello Stato. L'equipaggio, in gran parte di origine elbana e di grande esperienza, rimase a bordo, militarizzato con la propria classe. Nei successivi 39 mesi di guerra la nave fu adibita soprattutto al pilotaggio e scorta di piccoli convogli. Occasionalmente, fu utilizzata per traghettare sulla linea A1, da Piombino a Portoferraio e viceversa, passeggeri civili e truppe in transito. Svolse inoltre il ruolo di nave scuola a vantaggio degli allievi della Regia Accademia Navale di Livorno, con brevi uscite in mare settimanali.
 
8 settembre 1943
L'armistizio colse il piroscafo Andrea Sgarallino ormeggiato al molo San Bartolomeo della base di La Spezia. La nave era giunta nel porto ligure quattro giorni prima ed attendeva l'ordine di imbarcare un carico di mine. Sbarcato il comandante titolare per malattia, la nave prese immediatamente il mare agli ordini del tenente di vascello Carmelo Ghersi.
A causa dei rischi derivanti da un imminente attacco tedesco alla base sarda della Maddalena, l’Andrea Sgarallino raggiunse l’Elba, gettando l’ancora nella baia di San Giovanni.
 
Portoferraio, 10 settembre 1943
Al mattino del 10 settembre il tenente di vascello Ghersi si presentò al Comando Marina per avere istruzioni. Il morale del presidio era bassissimo, la situazione era pesante. La situazione dei viveri era precaria e le notizie che giungevano dal continente erano preoccupanti. L'Elba era praticamente isolata, tra coste diventate di colpo ostili. Non avendo avuto nessun ordine il comandante Ghersi decise che la nave, in attesa del maturare degli eventi, sarebbe rimasta all'ancora a San Giovanni con un equipaggio ridotto. I marittimi elbani che lo avessero desiderato, avrebbero potuto raggiungere le loro famiglie. Unico obbligo, mantenere quotidianamente i contatti con il piroscafo.

Sotto bandiera tedesca
Il 20 settembre 1943 il comando militare tedesco sull'Isola d'Elba instaurò la legge marziale con l'immediata fucilazione per i militari italiani ancora fuggiaschi che non si fossero presentati entro le 24 ore successive. L'equipaggio dell'Andrea Sgarallino, in parte rientrato presso le proprie abitazioni ed in parte nascosto nei boschi, vista l'impossibilità di lasciare l'Isola e nel timore di rappresaglie nei confronti della popolazione civile, tornò a bordo.
Considerata l'assoluta necessità di ripristinare i collegamenti con il continente e di assicurare il trasporto di generi di prima necessità, il comando tedesco convocò i comandanti Ghersi dello Sgarallino e Fiumara del Gasperi, dando loro il nullaosta per la ripresa del servizio. All'alba del 21 settembre 1943 un reparto armato prese possesso della nave, issando a poppa la bandiera di guerra germanica. Il comandante Ghersi e l'equipaggio protestarono energicamente, proponendo di battere piuttosto bandiera bianca.
Per tutta la giornata lo Sgarallino fece la spola con Piombino, trasportando passeggeri, militari della Wehrmacht, posta, viveri e altri materiali. Quel giorno, in banchina, fu scattata l'ultima fotografia conosciuta del piroscafo. La nave passò la sua ultima notte all'ormeggio al pontile Elba di Piombino, di fronte alla Capitaneria, pronto per ricominciare una nuova dura giornata di lavoro l'indomani, 22 settembre 1943.
 
L’ultimo viaggio
In quelle stesse ore, nelle acque del Tirreno, incrociava il sommergibile HMS Uproar della Royal Navy. Il battello, agli ordini del giovane capitano di corvetta Laurence Edward Herrick, era partito da Malta il 15 settembre e probabilmente possedeva indicazioni molto precise sulle rotte di sicurezza e sui campi minati della zona (la flotta italiana era giunta a Malta solo pochi giorni prima). La missione affidata al battello inglese consisteva nel pattugliamento delle acque antistanti la costa livornese e l'arcipelago toscano e l'interdizione di quest'area ad ogni unità nemica in transito da e per la Corsica, dove era imminente l'ordine generale di evacuazione per le forze tedesche.
All'alba del 22 settembre 1943, mentre la città di Piombino ancora dormiva avvolta nell'umida foschia del mattino, una piccola folla attendeva di imbarcare sullo Sgarallino mentre, alla spicciolata, altre persone continuavano ad arrivare in porto. Sotto l'occhio vigile delle sentinelle tedesche, sbandati dalle uniformi mescolate a indumenti civili, borghesi, donne e bambini attendevano disciplinatamente. Non è mai stato possibile chiarire esattamente il numero di quanti presero posto sul piroscafo prima che il comando della nave ordinasse di fermare l'imbarco e mollare gli ormeggi, sebbene una lista di passeggeri (andata perduta nelle successive vicende belliche) fosse stata effettivamente compilata e i documenti di ciascuno attentamente verificati dai militari tedeschi. Nel corso degli anni quel numero è cresciuto fino a raggiungere i trecento, anche se i documenti e le testimonianze esistenti negli archivi civili e militari consentono oggi di riportare la cifra a meno della metà: verosimilmente sul piroscafo Andrea Sgarallino, al momento della partenza da Piombino, si trovavano circa centoventi persone, equipaggio e scorta militare compresa.

Acque di Monte Grosso, ore 9.45 del 22 settembre 1943
La navigazione si svolse regolare per circa un'ora. La nave, dopo aver costeggiato la città di Piombino fino alla punta della Rocchetta, attraversò il canale, lasciandosi l'isola di Palmaiola a sinistra, toccando Capo Vita. A quel punto, costeggiando la costa rocciosa, lo Sgarallino giunse in vista dell'imboccatura della rada di Portoferraio. Nello stesso momento l'idrofono del sommergibile Uproar captò un debole rumore di elica in avvicinamento. Il rumore si fece man mano più forte e il comandante Herrick ordinò a tutto il personale di andare ai posti di combattimento, portando il battello a quota periscopica. L'ufficiale, esperto sommergibilista, inquadrò lo Sgarallino che, lentamente, serrava le distanze. Osservò attentamente l'obiettivo: era un bastimento mimetizzato di medie dimensioni, armato, probabilmente un cacciasommergibili.
Alle ore 9.49 esatte di quel 22 settembre 1943, da una distanza stimata di 800 metri, il sommergibile lanciò tre siluri. L'Andrea Sgarallino, ignaro del pericolo, si trovava in quel momento a meno di un miglio da Portoferraio, al traverso della spiaggia di Nisporto. A bordo si respirava già l'euforia dello sbarco, quando un boato terribile scosse la nave devastando la prua. Pochi secondi e una seconda, violentissima esplosione, squarciò al centro lo scafo. La tragedia si consumò in pochi interminabili secondi: avvolta dalle fiamme e dal fumo, la robusta struttura collassò, spezzandosi in due tronconi e sprofondando in un ribollire di schiuma. Detriti di ogni genere, poveri resti umani e una grande macchia oleosa segnarono ai soccorritori, sopraggiunti con mezzi di fortuna, il punto del naufragio. Fu possibile recuperare solo pochi uomini ancora in vita, tra cui un solo membro dell'equipaggio civile del piroscafo, il fuochista Stefano Campodonico, gravemente ferito. Solo molti anni dopo fu rintracciato un secondo superstite, il marinaio cannoniere Celestino Fusari.
Il mare restituì pochissime salme, tra le quali quella del comandante Ghersi. La più piccola vittima di quel giorno fu Angelo, che viaggiava con la mamma Caterina e il babbo Antonio: aveva appena nove mesi. La popolazione elbana, nella sua storia millenaria da sempre abituata alle prove peggiori, uscì da quella tragica settimana, iniziata col bombardamento di Portoferraio, sconvolta. Altri durissimi momenti avrebbero però atteso l'Elba prima della fine della guerra: la fame, l'isolamento, i violenti bombardamenti aerei e, non ultima, la furia cieca degli stessi "liberatori".