La diversità, le diversità
La diversità è la qualità o condizione di chi o di ciò che è diverso. La radice è divertere, comune anche con ‘divertimento’ (e questa condivisione già indica un’idea, un rigetto della ortodossia e della monotematicità dell’esistenza).
Ma vediamo i significati: il primo è ‘scostarsi da, allontanarsi’, che indica un allontanamento rispetto a qualcosa; il secondo riguarda ‘l’essere differenti’, per cui le differenze sono specificazioni della diversità, sono le sue forme concrete; infine c’è l’indicazione di ‘portare via’ (qualcosa che [ci] viene portato via): ciò che la diversità ci porta via, ciò da cui ci allontana o ci separa è la normalità. Ma che cosa è la ‘normalità’? E’ “il carattere, condizione di ciò che è o si ritiene normale, cioè regolare e consueto, non eccezionale o casuale o patologico, con riferimento sia al modo di vivere, di agire, o allo stato di salute fisica o psichica, di un individuo, sia a manifestazioni e avvenimenti del mondo fisico, sia a situazioni (politiche, sociali, etc.)”.
Un tempo la norma era la squadra per misurare gli angoli retti e condivide una medesima radice con il verbo conoscere, far conoscere.
Nella Dichiarazione universale dell’Unesco sulla diversità culturale, del 2001, si legge che “[…] La diversità si rivela attraverso gli aspetti originali e le diverse identità presenti nei gruppi e nelle società che compongono l'Umanità. Fonte di scambi, d'innovazione e di creatività, la diversità culturale è, per il genere umano, necessaria quanto la biodiversità per qualsiasi forma di vita”.
Sembra dunque che la diversità rappresenti una positività, un valore desiderato e desiderabile. In realtà così non è sempre stato ed anche nella contemporaneità viviamo una sorta di schizofrenia tra l’affermazione formale del valore della (delle) diversità e il ‘ritorno’ del desiderio di ‘normalizzazione’, che attraversa come una faglia il mondo da Nord a Sud.
Sin dal Medioevo le fonti – le ‘basi ideologiche’ – della diversità sociale sono la religione, le malattie del corpo, l’identità (fobia per ebrei e stranieri), gli atti e soggetti contro natura (sodomiti e mostri), il bisogno di stabilità fisica e sociale contro vagabondi, erranti e dunque ‘zingari’, il lavoro (la cui mancanza connota gli oziosi e i mendicanti validi).
Di volta in volta nell’alveo dell’ostilità contro il ‘diverso’ sono entrati i criminali, ossia i membri della comunità che ne contravvengono le norme (di qui il valore pedagogico della pena pubblica, come ha ben evidenziato Cesare Beccaria); gli eretici, i rivoluzionari e i ribelli; anche la malattia ha spesso generato rifiuto, come ben rappresentato dai lebbrosi, dai pazzi (e in quest’ultimo caso si comprende bene il valore della rivoluzione di Franco Basaglia); la stessa condizione socioeconomica genera discriminazione, come nel caso dei poveri e dei mendicanti (distinti per povertà strutturale o congiunturale, quest’ultima associata ad eventi particolari come guerre, carestie, etc.); sono oggetto di misure apposite ‘a favore’ se residenti, di ostilità se vagabondi (come i migranti), come anche viene assistito il ‘povero vero’ (es. malato) e combattuto il mendicante valido (come, mutatis mutandis, nella vicenda contemporanea della sospensione del Reddito di Cittadinanza nel nostro Paese).
Un tempo rientravano nella repulsione contro la diversità anche categorie oggi non più considerate tali, ossia chi svolgeva alcuni mestieri reputati ‘infamanti’ come i
macellai, i pulitori di latrine, i cuochi, chi lavorava i tessuti, tutta la categoria dei musici, giullari etc.; ovviamente lo stigma, ancor oggi in gran parte vivo, riguardava le prostitute e i sodomiti, i nomadi (ma non quelli digitali!), mentre quello per gli studenti (marginali ‘a tempo’, dediti a taverna e sesso e per questo isolati in appositi collegi) e per i soldati in tempo di pace è in gran parte decaduto.
Nell’ambito religioso la lotta contro la sfida all’ortodossia e alla ‘vera religione’ ha generato una scia di dolore e sangue di lunghissimo periodo, ravvivata oggi dal riemergere dei fondamentalismi e ha interessato in particolare le religioni monoteistiche al loro interno e nel confronto tra loro; in quest’ambito spicca il rapporto con gli Ebrei, la ‘minoranza per eccellenza’ in Europa.
L’ostilità nei confronti del ‘diverso’ nasce sovente dallo stereotipo, ossia un insieme coerente e abbastanza rigido di credenze negative che un certo gruppo condivide rispetto ad un altro gruppo o categoria sociale. Lo stereotipo è il nucleo cognitivo del pregiudizio, che definiamo genericamente come un giudizio precedente all’esperienza o in assenza di dati empirici, ma più precisamente come una tendenza a considerare in modo ingiustificatamente sfavorevole le persone che appartengono ad un determinato gruppo sociale; in tal senso può orientare concretamente l’azione divenendo discriminazione.
Un ambito elettivo di stereotipizzazione è la questione femminile: anche in Occidente, pur avanzato dal punto di vista del riconoscimento delle pari opportunità, c’è discriminazione (anche se in altre società la penalizzazione femminile è molto più accentuata), sia sul lavoro, che sui ruoli sociali, che nel linguaggio.
Elementi costitutivi dello stereotipo femminile: più emotive, gentili, sensibili, dipendenti, poco interessate alla tecnica, curate nell’aspetto, naturalmente disposte alla cura.
Elementi dello stereotipo maschile: aggressivi, indipendenti, orientati al mondo e alla tecnica, competitivi, fiduciosi in se stessi, poco emotivi. Il maschio è dominante e orientato all’esterno; la femmina dominata e ripiegata su se stessa e sulla casa.
Ancora in gran misura permane il pregiudizio etnico-razziale: si è passati da un ‘vecchio’ razzismo (fondato sostanzialmente sugli aspetti fisico-biologici rovesciati sulla personalità singola e collettiva) ad un razzismo di tipo ‘culturale’, fondato sul concetto di ‘diversità culturale’ finalizzata alla discriminazione di determinati gruppi. Incredibilmente, nella contemporaneità si assiste alla riproposizione dei caratteri nazionali, campo in cui il ruolo degli stereotipi è evidente e frutto di riflessioni di lungo periodo, sia della scienza sociale ma anche della letteratura e della filosofia. L’idea di base è che i diversi gruppi nazionali siano caratterizzati da alta omogeneità per quanto riguarda sensibilità, attitudini, disposizioni comportamentali, orientamenti valutativi, con una tendenza alla generalizzazione (le caratteristiche considerate tipiche del gruppo sono pensate come omogenee nel gruppo stesso) e alla rigidità (l’insieme di quelle caratteristiche è un insieme coerente, organico e duraturo nel tempo), massimizzazione che è facilmente prodromica al razzismo, anche di tipo ‘antico’ (biologico) e alle recenti fortune del cd. ‘sovranismo’.
A livello più ‘micro’ tutti i gruppi sociali possono essere destinatari di stereotipi o pregiudizi di maggiore o minore gravità. Ad esempio i giovani e gli anziani: la disposizione verso questi due gruppi è ambigua e mutevole nel tempo, specie nelle nostre società occidentali contemporanee. I primi sono oggetto sia di stereotipi negativi (irresponsabili, superficiali, presuntuosi, oggi anche bamboccioni e choosy) anche se quelli positivi sono molto forti (sognatori, generosi, fantasiosi, innovativi, aperti all’esperienza). I secondi, nel tempo, sono scivolati in un limbo di antitesi ai tratti caratterizzanti la società contemporanea (rigidi, volti al passato, poco innovativi, collerici, vittimisti, bisognosi di assistenza) e al contempo bersaglio di politiche consumistiche di giovanilizzazione.
Un’altra categoria spesso vittima di stigma sociale è quella della disabilità fisica e mentale: oggetto di stereotipi che li accomunano, i disabili hanno percezioni diverse a seconda della loro categorizzazione. I primi (fisica) sono stati i destinatari di una rivoluzione rispetto ai secoli precedenti, divenendo una sorta di ‘categoria protetta’ (come gli anziani) con i suoi pro e i suoi contro (hanno associate caratteristiche di fragilità, emotività, inaffidabilità nell’interazione), mentre i secondi hanno in comune con i primi la non-corrispondenza con gli standard di efficienza della società contemporanea ma in più mantengono lo stigma della ‘pericolosità sociale’ e della messa in discussione della convivenza collettiva e della sicurezza pubblica.
Rimane ancora molto forte, e nel nostro Paese in preoccupante rimonta, l’ostilità nei confronti dell’omosessualità, spesso dissimulata in una cornice generale di tipo egualitario e non discriminatorio. Simile sorte è toccata poi ai tossicodipendenti: ai due gruppi non viene perdonata la caratterizzazione stereotipica di debolezza psicologica e scarsa maturità sociale, creatrici di pericoli anche dal punto sanitario oltre che sociale.
Ma l’incontro con l’alterità non è una novità della contemporaneità, quanto piuttosto una costante dell’esperienza umana. La diversità è ineludibile: questo ci porta a considerare la questione della diversità con diverse modalità rispetto ad una scelta senza alternative tra ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è positivo e negativo, tra una risorsa e una minaccia. Si tratta piuttosto di prendere atto che la diversità è una delle caratteristiche costitutive delle società complesse che non può non essere presa in considerazione.
Oggi la gran parte del dibattito sul tema della diversità, sia nel campo della scienza che nel senso comune, tende ad esaltare il ruolo e il valore positivo che questa gioca nelle società. A questa presa di posizione positiva del ruolo e del valore della diversità, che spesso però non tiene conto dell’esperienza quotidiana di chi vive la diversità, corrisponde anche una crescente paura nei confronti dei diversi e della minaccia che questi rappresentano.
La diversità è quel momento in cui l’esperienza della vita quotidiana non è più fatta di tranquillità quanto piuttosto di ansia (non sempre negativa) e di angoscia. L’atteggiamento nei confronti della diversità deve fare i conti con il non conoscere, vale a dire con l’ignoranza: il non sapere, la mancanza di informazioni; questa ignoranza può essere gestita, vi si può voler rimediare, entrando in relazione. Oppure ci si può rifiutare: siamo a conoscenza della presenza della diversità sebbene si possa pretendere (fingere) che l’altro non esista e comportarsi di conseguenza.
La diversità fa paura e le differenze sono inquietanti perché non le conosciamo. E meno le conosciamo più appaiono inquietanti.