Diritto del lavoro, nuove tendenze

Simone D'Ascola

 Quella branca del diritto «che dal lavoro prende il nome» (Romagnoli) è soggetta, da oltre un ventennio, alla volontà delle maggioranze politiche d’ogni colore di intervenire con riforme che hanno sempre in comune un elemento: la pretesa del ceto politico e di governo (o più che altro della sua propaganda) che le sorti economico-occupazionali della società siano connesse a tali riforme e al (sovente limitato) impatto reale che esse, in ultima analisi, producono sulle variabili attraverso cui si misura lo stato di salute di ciò che si suole chiamare “mercato del lavoro” (1). 

Ciascun governo ritiene di dover lasciare il segno in questa materia attraverso provvedimenti spesso dettati dall’occasionalità, a volte solo simbolici, troppo spesso capaci unicamente di peggiorare le condizioni di vita di quella larga maggioranza della società che ha bisogno di lavorare per vivere. 

 Molte idee hanno mosso questi interventi nel corso degli anni. Il mantra della flessibilità, unitamente a quello relativo agli aiuti economici alle imprese che, si sostiene, dovrebbero riverberarsi direttamente in una crescita occupazionale qualitativa e quantitativa, è forse la principale di queste idee. 

 In ossequio ad essa, si è assistito fra l’altro a continui interventi sulla tipologia contrattuale più rappresentativa della famigerata precarietà che tutt’ora caratterizza troppo diffusamente la nostra società nel suo complesso: la disciplina del contratto a tempo determinato. Quest’ultimo, lungi dall’essere nell’ordinamento giuridico l’unico modo per reperire manodopera in forma temporanea, nei manuali di diritto del lavoro che ne ricostruiscono l’evoluzione normativa, si presenta ormai in modo macchiettistico: di fatto, tutte le maggioranze politiche dall’inizio del secolo ne hanno rivisto le regole in un senso o nell’altro. 

 Quasi un unico senso hanno invece assunto gli interventi in materia di licenziamento. La direzione in tal caso è sempre stata inequivocabilmente quella di facilitare la possibilità, per le imprese, di liberarsi illegittimamente dei lavoratori. Occorre, infatti, ricordare, preliminarmente rispetto a ogni considerazione di merito, che nell’ordinamento giuridico italiano, come più o meno in tutte le economie in cui il socialismo reale non fosse il sistema vigente, licenziare giustificatamente lavoratrici e lavoratori è stato quasi sempre possibile e, in presenza di valide ragioni, nemmeno troppo difficile. 

 Da diversi anni, però, hanno guadagnato consenso, nel paese e presso il decisore politico, alcune teorie sulla base delle quali la disciplina italiana in materia di licenziamento avrebbe rappresentato un freno all’economia e (sic!) alle assunzioni. Il discorso sarebbe lungo e articolato, ma, se il lettore consente ad una semplificazione, è quantomeno singolare che le imprese possano dar vita a una dinamica occupazionale positiva per il fatto di poter espellere più agevolmente e senza motivazione dal mercato i lavoratori! 

 Se in presenza di ragioni disciplinari o di ragioni economico-organizzative riferibili all’andamento dell’attività di impresa e alle scelte di quest’ultima è infatti sempre possibile licenziare un lavoratore, non vi è dubbio che un controllo giudiziario sulla presenza di tali ragioni debba essere sempre possibile.
 Proprio sulle conseguenze dell’accertamento dell’assenza di una valida ragione giustificatrice del licenziamento si è accanito il legislatore: ritenendosi – da destra e, nel 2015, da “sinistra” – che il rimedio della reintegrazione nel posto di lavoro (l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori fino al 2012) o una sanzione economica di almeno 12 mensilità (l’art. 18 dopo la riforma Monti-Fornero del 2012) fossero un “prezzo” eccessivo e troppo incerto per l’impresa che illegittimamente manda a casa un lavoratore, si è deciso nel 2015 che un licenziamento ingiusto (2) fosse “acquistabile” per un costo assai più ridotto e collegato automaticamente alla sola anzianità di servizio del lavoratore. 
In brutale sintesi, ciò erano le cosiddette tutele crescenti della riforma renziana. 

 L’uso dell’imperfetto si deve al fatto che questo intervento, ma anche, per certi versi, quello che aveva riguardato l’art. 18 nel 2012, è stato letteralmente smontato dalla Corte costituzionale, che ha ritenuto la descritta disciplina inadeguata a garantire un ristoro sufficiente al lavoratore cacciato ingiustamente dal suo lavoro e inidonea a dissuadere le imprese dal compiere un atto illegittimo. 

 Il fermento giudiziario in materia di licenziamento nell’ultimo anno ha coinvolto non solo il giudice delle leggi, ma anche le Corti di merito e la Cassazione, che hanno indubbiamente trovato ampi argomenti per rivedere in senso più garantista l’apparato di tutele in parola, persino riallargando lo spazio del «terribile rimedio» della reintegrazione nel posto di lavoro (3). 

 Le riforme degli ultimi anni, però, hanno riguardato anche moltissimi altri aspetti di disciplina dei rapporti di lavoro e di tutela della persona che si trovi, più o meno temporaneamente, anche fuori dal mercato (si pensi al Reddito di cittadinanza, di recente fortemente ridimensionato).
Su materie come i controlli a distanza del lavoratore, le collaborazioni non subordinate, la disciplina delle mansioni (e molte altre ancora) ha avuto un ruolo determinante la necessità di adeguamento del sistema all’evoluzione tecnologica e alla trasformazione delle professionalità. Il “capitalismo delle piattaforme” e una digitalizzazione dell’economia e dei processi produttivi ormai dominante in ogni settore dell’economia non potevano certo essere ignorati. 

 Tre grandi questioni si sono poi presentate come estremamente urgenti e drammatiche: la pandemia, la dinamica inflazionistica (legata anche alla guerra) e il dirompente problema ambientale e climatico. Se la prima ha forzato i tempi della tendenza alla remotizzazione del lavoro e posto in luce una volta di più l’importanza della tutela della salute; la seconda ha fatto riesplodere in Italia una grave questione salariale, di fronte alla quale anche la Direttiva UE di ottobre 2022 sui salari adeguati non sembra dare risposte sufficienti, costringendo dunque a interrogarci sulla necessità o meno di una fissazione legale dei minimi retributivi (stante la difficoltà che i – troppi! – contratti collettivi nazionali incontrano nel rappresentare un’attendibile autorità salariale, come per decenni hanno fatto). 

 La terza questione mette spalle al muro le imprese, costringendole a rivedere la sostenibilità dei loro ecosistemi e catene del valore: l’assodata origine antropica dei cambiamenti, infatti, non può non responsabilizzare verso una trasformazione in senso green e più equo dei processi produttivi, per quanto elevati siano i costi che essa comporta: come testimonia la modifica che nel 2022 ha riguardato l’art. 41 della Costituzione (4) anche il legislatore se n’è accorto. 

1 Molti aspetti delle riforme del mercato del lavoro in realtà hanno ad oggetto i rapporti di forza e le tutele interni ai singoli rapporti di lavoro, nel cui ambito legge e contrattazione collettiva si incaricano di assegnare un insieme di garanzie al prestatore di lavoro che si trova in una posizione di strutturale debolezza. La risalente vulgata sulla necessità di uno spostamento del baricentro delle tutele dal rapporto al mercato è stata solo sporadicamente inverata dagli interventi normativi, che invece hanno spesso indebolito la posizione del lavoratore nel rapporto.

2 Ossia un atto che, alla stregua dell’art. 36 della Costituzione, può potenzialmente negare la possibilità al lavoratore/trice e alla sua famiglia di mantenere «un’esistenza libera e dignitosa».

3 L’espressione, molto usuale fra i giuslavoristi, scimmiotta una definizione che Beccaria diede del diritto di proprietà quale «terribile, e forse non necessario, diritto».

4 Si tratta del principio che, nell’affermare la libertà di iniziativa economica privata, ne fissa una serie di limiti. Nel 2022, a utilità sociale, sicurezza, libertà e dignità umana sono stati espressamente aggiunti salute e ambiente.